martedì 13 dicembre 2011

Il dilemma originato da una bella riflessione di Keynes

"Le idee degli economisti e dei filosofi, giuste o sbagliate che siano, sono molto più potenti di quanto comunemente si pensi. In realtà il mondo è governato praticamente solo da queste. Nel bene o nel male sono le idee a guidare il mondo e non gli interessi materiali". John Mainard Keynes.

Confesso di nutrire simpatia per l'autore di questa riflessione, dalla quale traspare un certo romanticismo idealistico tipico di un'epoca in cui gli Stati erano dominati dai valori "generali" della politica. Ho tuttavia qualche dubbio sulla sua fondatezza nel mondo attuale, dove i poteri pubblici tendono a perdere la loro politicità soggetti come sono ai poteri economico finanziari che ormai decidono le sorti dei popoli.

L'etologo Konrad Lorenz ha dimostrato che l'uomo - come ogni essere vivente - è guidato nelle sue azioni cognitive dall'istinto tutto materiale per la sopravvivenza e la conservazione. Sorge spontanea la domanda: sono le idee a governare  il mondo o non piuttosto gli individui che nascondono gli interessi materiali mascherandoli con idee altruistiche? In fondo, si tratta di un dilemma dal quale non verremo mai a capo perché investe quel misto di bene e di male che è la natura umana.  

In politica, ad esempio, le idee generali, travestite sotto forma di valori e racchiuse in parole magiche come "democrazia", "giustizia sociale", "uguaglianza"  sono spesso servite ai governanti per guadagnare il consenso dei cittadini mascherando i rudi interessi materiali da cui dipendono loro stessi e i loro aiutanti. Il fine di tali azioni risiede in questo caso nell'autoconservazione, nella sopravvivenza raggiunta attraverso la subordinazione dei governati costretti a tributo.

E' peraltro innegabile che senza la classe politica che ha retto lo Stato di diritto e sociale del XX secolo non avremmo il suffragio universale, le scuole e le università aperte al merito, i diritti dei lavoratori, i sussidi di disoccupazione, le pensioni e tanti altri interventi a sostegno dell'economia volti a correggere un capitalismo altrimenti spietato.

Oggi il quadro sembra nuovamente e radicalmente mutato.

martedì 15 novembre 2011

Un consiglio a Monti: tenga lontano i politici dal governo

Il presidente del consiglio incaricato, Mario Monti, ha dichiarato ieri sera di voler formare un governo composto non solo di tecnici ma anche di politici. A suo giudizio, la grave crisi che il Paese sta attraversando richiederebbe uno sforzo comune d'intenti che coinvolga le forze politiche decise ad imboccare un sentiero costruttivo per la crescita economica dell'Italia.

Non condivido questa scelta e temo che Monti, se riuscisse a fare entrare i politici nel governo, compirebbe un passo falso clamoroso. Un governo aperto ad esponenti della politica finirebbe con lo screditare  l'Italia agli occhi degli investitori internazionali,  senza contare la scarsa credibilità di fronte a un'opinione pubblica ostile ai professionisti della politica. Non va inoltre dimenticato che i gravi problemi dell'Italia in campo finanziario sono stati prodotti dal malgoverno partitocratico che inquina le istituzioni da almeno quarant'anni. Se i partiti di centrodestra e di centrosinistra avessero fatto negli anni passati  le riforme economiche e istituzionali che servono al Paese, oggi non saremmo costretti a recitare la parte di sorvegliati speciali nei consessi internazionali.

E' quindi decisivo che il governo sia composto esclusivamente di "tecnici" che godano del più ampio prestigio in Italia e all'estero. Ovviamente, come in tutti i regimi parlamentari che funzionano, l'esecutivo Monti si sottoporrà alla fiducia delle Camere: in quella sede i partiti faranno le scelte che crederanno più opportune, assumendosi la responsabilità di appoggiare o far cadere il governo.

Vedremo nelle prossime ore quale sarà la composizione dell'esecutivo. Ha ragione Monti quando afferma di voler formare un governo che sia in grado di durare per tutta la legislatura realizzando incisive riforme istituzionali ed economiche. Non riesco a capire tuttavia come possa  farlo se rinuncia a quel profilo eminentemente tecnico - quindi 'super partes' - che solo può guadagnare alla sua squadra la fiducia dei mercati e, quel che più conta, il sostegno degli italiani chiamati a fare sacrifici.

venerdì 11 novembre 2011

Le amare ricette di Monti per ridare un futuro agli italiani

Mario Monti sembra l'uomo giusto per salvare l'Italia dalla crisi. L'economista lombardo gode di un notevole prestigio in Italia e all'estero. Le sue prese di posizione sono sempre state equilibrate e responsabili. L'uomo ha le competenze e la credibilità per fare le riforme che consentano al paese di tornare a crescere.

Non sappiamo se Monti riuscirà a formare un governo che abbia la maggioranza parlamentare. Nel gorgo della crisi finanziaria che sta risucchiando l'Italia verso il baratro l'economista bocconiano sembra essere l'unica persona in grado di far fronte alla tempesta dei mercati traghettando l'Italia fuori dalla crisi.

Ieri, intervenendo a margine di un convegno a Berlino, Monti ha affermato che servono all'Italia riforme strutturali dirette a rimuovere gli ostacoli che frenano e inceppano la crescita dell'economia. Un lavoro immane per qualunque governo sia chiamato a guidare il Paese nelle prossime settimane.

Condivido tali riflessioni, anche se le riforme richiederanno senza dubbio sacrifici e risulteranno in larga parte impopolari. Credo tuttavia che i paesi migliori siano quelli che non temono di mettersi in discussione, di reinventarsi per vivere da protagonisti in un mondo, come quello attuale, dominato dalla velocità impressionante del progresso tecnologico e dalla fittissima rete di relazioni economiche e culturali tra i diversi paesi. Non possiamo più permetterci di perdere tempo.

Il direttore del "Giornale Italiano" Vincenzo Cuoco, recensendo nel gennaio del 1804 la Discussione economica sul Dipartimento d'Olona dell'economista Melchiorre Gioia, scrisse una riflessione che mi sembra di straordinaria attualità nella difficile congiuntura che stiamo vivendo:

"Il male che si soffre è l'effetto delle inevitabili vicende che affliggono tutti gli uomini e tutte le nazioni. Ma il peggiore dei mali, dopo tali vicende, è quello di non volerne soffrire il rimedio. Il maggior numero dei popoli è perito miseramente non per i mali che avea sofferti, ma per l'aborrimento a quelli rimedj che l'avrebbero incomodati per un momento, ma li avrebbero sicuramente guarito".

[Il passo è tratto da VINCENZO CUOCO, Pagine giornalistiche, Roma-Bari, Laterza 2011, pp.38-39].

sabato 1 ottobre 2011

Quando Milano era un cantiere di beneficenza


Nei secoli passati la benificenza a Milano era assai più diffusa di quanto non lo sia oggi. Le iniziative a sostegno dei malati, degli infermi, degli anziani, delle ragazze povere, furono intraprese da  istituzioni assistenziali che agivano con il sostegno del potere pubblico, della chiesa ambrosiana e delle famiglie nobili milanesi.

Sotto il Regno d’Italia napoleonico tali iniziative ricevettero largo impulso ad opera del governo. Si trattava di una forma di "carità sociale"  assai vicina a quella in vigore nei territori europei governati dalla casa d'Austria nella seconda metà del Settecento. Una carità autenticamente produttiva perché, se assegnava allo Stato il dovere di assistere i sudditi  bisognosi, imponeva  a questi ultimi il dovere di rendersi utili alla società migliorando se possibile la loro condizione.

Nello Stato italico, di cui Milano fu capitale dal 1802 al 1814, il divieto della mendicità, l'introduzione di case d'industria per i poveri vagabondi e di case di ricovero per i poveri invalidi erano atti che derivavano da questa peculiare concezione di "carità sociale", figlia del più genuinoWohlfahrtsstaat germanico. In fondo, sotto il profilo amministrativo, il regime napoleonico costituì il perfezionamento dello Stato asburgico introdotto in Lombardia da Giuseppe II d'Austria.
  
I decreti napoleonici del 5 settembre e del 21 dicembre 1807 istituirono congregazioni di carità i cui membri, nominati dal viceré Eugenio Beauharnais, esercitavano un’attività tesa alla promozione dell’assistenza nei confronti delle classi disagiate. Si trattava in fondo di una forma di welfare a metà strada tra il privato e il pubblico: se le risorse erano garantite grazie alle donazioni delle famiglie abbienti, il controllo sull’utilizzo di quei fondi era competenza del ministero dell’interno che operava mediante appositi ispettori. In realtà, le opere a sostegno dei più bisognosi furono realizzate grazie all’impegno dei milanesi, in particolar modo della classe dirigente appartenente per lo più alla nobiltà cittadina.

A Milano la congregazione, presieduta dal prefetto, era composta di 15 membri nominati dal viceré tra i possidenti, i commercianti o gli uomini di legge. La congregazione di carità, la cui sede si trovava nei locali dell’Ospedale Maggiore (oggi Università degli Studi di Milano) era articolata in tre sezioni: la prima rivolta agli ospedali, la seconda ad altre strutture di ricovero, la terza agli enti elemosinieri e ai monti di pietà.

Il canonico Mantovani, sotto il giorno 1 ottobre 1807, annotava nel suo Diario politico ecclesiastico alcune notizie significative che riguardavano i provvedimenti intrapresi dal governo e dalla società civile a sostegno della pubblica assistenza.

1 ottobre 1807.

"Con decreto del Viceré [Eugenio di Beauharnais, viceré del Regno italico dal 1805 al 1814, NdR] si è pubblicata jeri la istituzione di un Conservatorio di 24 allievi gratuiti, diciotto maschi e sei femmine, nel locale della Passione, per imparare la Musica, aperto a tutti i giovanetti della città per questa scienza.

Alcuni ricchi e virtuosi cavalieri della nostra città, di cui capo è il signor Marchese Arconati, hanno fatto disegno, e coll'opera e direzione dell'ottimo Barnabita P. De Vecchi, stanno riducendolo in pratica, di fissare, per quanto sarà possibile, in ogni parrocchia di Milano, una casa di scuola ed educazione per le povere figlie della città, in cui saranno ricevute giornalmente ed assistite con carità e larghezza tutte quelle le di cui famiglie sono incapaci di farle ben educare dagli anni primi sino alli 19 ecc., coll'intenzione anche di coadjuvarle o nel loro collocamento, o d'impiegarle in servizio decente e sicuro per ogni pericolo.

Sonsi già stabilite 9 case, per 9 parrocchie, e destinate due saggie (sic!) maestre per ogni casa, colla soprintendenza di alcune virtuose dame e matrone, che di tempo in tempo visiteranno queste case per invigilare, e provvedere ai bisogni. Se questo stabilimento prenderà consistenza, con ragione di spera di vedere alcun poco minorati gli scandali tanto frequenti nelle famiglie, e i bordelli meno numerosi nelle contrade della città colla rovina della povera gioventù".  
  


I padri Felice e Gaetano De Vecchi, barnabiti, assunsero un ruolo importante nell'istituzione di case per la carità in collaborazione con la nobiltà. Felice De Vecchi era parroco in quegli anni a Sant’Alessandro (Porta Ticinese).

Il marchese Carlo Arconati (1750-1816), membro del consiglio comunale di Milano, faceva parte della Congregazione di Carità di Milano. Deteneva in quegli anni un ingente patrimonio immobiliare, il che lo portava a figurare tra i maggiori contribuenti dell'imposta diretta sui terreni. Il cancelliere guardasigilli Francesco Melzi d'Eril, in una lettera al viceré, ne proponeva la nomina al Senato descrivendolo in questi termini: "Quant à l'Olona...j'observerai seulement que parmi les premiers imposès se trouve Arconati Charles".   La moglie del marchese, Teresa Trotti (1765-1805), aveva fondato con alcune donne della nobiltà la "Società del Biscottino" per dare assistenza alimentare e spirituale ai malati dell'Ospedale Maggiore. I milanesi la definivano ‘congrega del Suss’ o ‘damm del bescottin’.   

martedì 13 settembre 2011

Bozzetti satirici da frammenti di storia/3

"La differenza tra l'alzarsi ogni mattino alle 6 o alle 8, nel corso di 40 anni, ascende a 20.200 ore, ossia a 3 anni, 121 giorno (sic!) e 16 ore; il che fa 8 ore al giorno per dieci anni. Onde chi per 40 anni s'alza alle 6 invece delle 8, può dire d'aver nel corso della vita una decina d'anni, nei quali gli sono aggiunte 8 ore di vita al giorno; tempo ragguardevole per coltivare il proprio ingegno, moltiplicare il numero degli affari, arricchirsi, e beneficare insomma maggiormente sé stesso e altrui.

Ma per lo stesso motivo che raccomandiamo l'alzarsi di buon'ora a quegli uomini che possono giovare colla mente o col cuore alla società, desideriamo che poltriscano lungamente nelle piume tutti coloro che la natura o l'educazione o l'ignoranza hanno reso malefici. Quanto maggior numero di tirannie avrebbe esercitato Nerone se si fosse alzato ogni giorno due ore più presto che non fu solito! Perciò Seneca sarebbe stato benemerito dell'impero se, vedendo in quel principe un'irresistibile inclinazione al mal fare, nulla avesse bramosamente cercato quanto d'ispirargli l'amore dell'inerzia e del sonno".

Silvio Pellico, Il Conciliatore, 13 settembre 1818.


Consigliamo vivamente a Marcello Pera di tornare a fare il filosofo. Sarebbe benemerito dell'Italia quando, constatando in B. un'irresistibile inclinazione a mal fare, impiegasse tutte le sue energie ad ispirargli l'amore per l'inerzia e per il sonno.

In assenza della perversa operosità di B. ci risparmieremmo i continui capricci di belle donnine generosamente aiutate, avremmo in Parlamento una maggioranza diversa da quella spettrale che ci perseguita, diremmo finalmente addio al "governo del fare" e il Capo dello Stato riuscirebbe a formare un governo i cui membri siano provvisti degli attributi per fare uscire il Paese dal baratro in cui si trova, ad ogni costo.

venerdì 9 settembre 2011

La manovra dei sotterfugi e il paese nel tunnel della crisi

Mentre in Parlamento si continua a discutere sui "miglioramenti" da apportare alla manovra, il governo arranca sotto la sferza implacabile della speculazione internazionale. I vertici incessanti tra i ministri della maggioranza dimostrano che la classe politica ha le idee confuse. Il 18 agosto, sotto l'infuriare dei mercati, il governo aveva approvato all'unanimità un decreto-legge "lacrime e sangue", un decreto redatto da Tremonti per conseguire un solo obiettivo:  guadagnarsi la prima scialuppa di salvataggio europea, convincere la Banca centrale ad acquistare  titoli di Stato italiani. Era una manovra certamente ingiusta in alcune parti perché chiedeva sacrifici a chi già ne faceva pagando le tasse e le imposte alla luce del sole. La sua approvazione a tempi di record convinse però l'Europa -  compresi i tedeschi - che il governo intendeva perseguire finalmente la strada del risanamento e delle riforme strutturali. Arrivò la prima scialuppa di salvataggio.

Poi è venuta la penosa manifestazione di fine agosto: sindaci e presidenti di province, animati da istanze schiettamente conservatrici, hanno sfilato per il centro di Milano in polemica con la manovra di Tremonti. Risultato? Il governo si è calato le brache ritirando quei (pochi) provvedimenti che avrebbero consentito di risparmiare sul fronte della spesa improduttiva negli enti locali. Addio soppressione delle province e accorpamento dei piccoli comuni.

Non basta. La marcia indietro del governo è continuata quando si è saputo che dalla manovra, approvata in Senato con voto di fiducia, i tagli alla politica sono stati fortemente ridimensionati.  Ricordate gli stipendi dei parlamentari che la prima bozza della manovra - quella del 23 giugno - voleva rapportati alla media di quelli europei? Qualcuno in Parlamento ha introdotto un emendamento con cui si stabilisce che l'indennità deve essere pari alla media dei sei maggiori paesi del Vecchio Continente. Escludendo gli Stati ove i costi della politica sono più bassi, i politici son riusciti ad evitare un taglio di almeno 1.000 euro sui loro stipendi. E le incompatibilità? Sparita la norma che estendeva a tutti gli amministratori locali il divieto di cumulo delle cariche, il divieto di ricoprire il seggio parlamentare è rimasto solo per i titolari di cariche monocratiche negli enti locali e nei comuni con popolazione superiore ai 5.000 abitanti: presidenti di provincia e sindaci. Quindi? Assessori, consiglieri comunali e provinciali potranno ricoprire il seggio di deputato o di senatore cumulando due stipendi pagati ovviamente dalla collettività. L'elenco dei privilegi, soppressi dalla manovra di Tremonti e ristabiliti di nascosto in Parlamento, potrebbe continuare.      

Insomma, quel che è rimasto in questa manovra dalle mille correzioni è la scure - pesante - sui ceti produttivi.  Il regime attuale poggiante su una serie interminabile di burocrazie improduttive è ancora in piedi. E i partiti dell'opposizione che fanno? Abbaiano nel tentativo di conservare la poca credibilità di cui ancora dispongono presso l'opinione pubblica addebitando a Berlusconi e alla sua maggioranza il disastro in cui ci troviamo. Il guaio è che non è colpa (solo) di Berlusconi. E' il sistema Italia che sta arrivando al collasso. Secondo gli economisti di Citygroup il nostro paese chiuderà il prossimo anno con un arretramento dello 0,3%. Certo, possono sbagliarsi ma il rischio di entrare in recessione è dietro l'angolo.

Nel febbraio 1994, accennando all'irriducibile ostilità della classe politica e burocratica nei confronti delle riforme strutturali del sistema politico economico, il professor Miglio diceva:

"La reazione rabbiosa che abbiamo dovuto fronteggiare è dipesa dal fatto che coloro i quali sanno per quali canali più o meno oscuri finiscono nelle loro tasche i danari che godono, la ricchezza che godono, sono prontissimi a capire quando c'è un taglio di quei canali. La costituzione federale è la classica costituzione fatta contro i parassiti. Non c'è nella storia del mondo un paese a regime federale che presenti il grado di corruttela di cui siamo oberati noi oggi. D'altra parte la reazione dei politici è anche comprensibile. Perché sono centralisti e anti-federalisti e tirano fuori le icone come la Patria che piange perché viene minacciata nella sua integrità. Perché centralismo e parassitismo sono due facce della stessa medaglia. Io devo scusarmi con voi se uso il termine "pidocchi" ma cosa volete farci.... il paese che siamo chiamati a cercar di cambiare è fatto così. E' un paese ammalato da un esercito di pidocchi".

Il professore venne deriso, attaccato da più parti con l'accusa di razzismo se non addirittura di demenza senile.Colpisce invece l'attualità di quel discorso. Il guaio è che, ora come nel 1994, l'Italia manca di una classe politica responsabile disposta a riforme radicali e impopolari per il bene del Paese: riforme che portino a una riforma integrale della Costituzione repubblicana in senso confederale e semipresidenziale. Berlusconi e Bossi hanno fallito. Il centro sinistra ha fallito. Non occorre stupirsi: quale politico di professione metterebbe a rischio la carriera politica limitando un sistema da cui trae tanti privilegi?

E' di poche ore la notizia che il rappresentante tedesco del comitato esecutivo della Banca centrale europea, Jurgen Stark, ha rassegnato le dimissioni perché non condivide la politica di Francoforte a sostegno dei paesi in difficoltà: Grecia, Spagna e Italia. I tedeschi si chiedono perché dovrebbero aiutare paesi le cui burocrazie continuano a dilapidare i loro aiuti nella spesa pubblica improduttiva.

E' un bel guaio. Senza scialuppe di salvataggio, è probabile che il Titanic Italia affonderà sotto le onde implacabili della speculazione internazionale. Qualora si configurasse tale scenario, sarebbe la fine dell'Euro o, a dir meglio, arriverebbe al capolinea l'Europa monetaria allargata ai Paesi più esposti alla speculazione internazionale (Spagna, Italia, Grecia, Portogallo).

Non è detto che questo sia un male per gli italiani: lasciati soli nel tunnel di questa crisi economica e politica, obbligati a resistere dalla dura lotta per l'esistenza, forse sapremo trovare con determinazione la via d'uscita fondando un nuovo regime vaccinato da ogni parassitismo.

Usciremo dal tunnel della crisi solo se avremo il coraggio di metterci radicalmente in discussione.

martedì 2 agosto 2011

Il "Piemontesino", un giovane annegato in un 'gorgo' del naviglio e due fittabili derubati all'osteria


Sotto la data 2 agosto 1821 il canonico Luigi Mantovani riportava nel suo diario alcune notizie della Milano austriaca che potremmo ricondurre ai fatti di cronaca.

Un 'famoso' malvivente, conosciuto come "Piemontesino", venne arrestato dai gendarmi nel "casotto" dell'Ospedale Maggiore. Il Mantovani si riferiva al "cassinotto" della Cà Granda, un edificio assai rustico che occupava una parte dell'attuale largo Richini, davanti all'Università Statale nel sestiere di Porta Romana. Il “cassinotto” venne demolito nel 1848 dagli insorti delle cinque giornate di Milano, che ne utilizzarono il materiale per costruire le barriccate.

Il secondo avvenimento della giornata riguardava l'annegamento di un giovane nelle acque del Naviglio nel sestiere di Porta Ticinese, il che mostra assai bene come le acque dei navigli fossero un tempo assai profonde.

La terza notizia era la più curiosa. Riguardava due fittabili che furono derubati da un ladro il quale poté agire ‘indisturbato’ grazie alla complicità di un oste. I fittabili erano imprenditori agricoli che gestivano proprietà terriere di dimensioni spesso notevoli. Nei territori della bassa pianura padana erano legati ai proprietari da un contratto di affitto di durata novennale. La gestione dei terreni con metodi imprenditoriali consentì ai fittabili di costituire autentiche aziende agricole dalle quali ricavare elevati margini di guadagno. Non stupisce che fossero presi di mira da ladri e malfattori.

“2 agosto 1821

Ieri mattina al così detto casotto vicino all’ospitale fu preso da travestiti giandarmi (sic!)  un ladro detto il Piemontesino, che aveva sotto un abito assai pulito due pistole ed un coltello.

Ieri dopo pranzo alla Madonna fuori Porta Ticinese, di tre giovinotti che nuotavano nel Naviglio uno fu involto in un gorgo, e non si è potuto aiutare. Egli ha 20 anni ed è impiegato del governo.

Al mezzogiorno due fittabili, che in vista d’un birbante avevano venduto del frumento [qui il Mantovani intende dire che il birbante li vide mentre vendevano il frumento, NdR], entrarono in un bettolino per bevere (sic!) un boccale di vino. L’oste disse: “Per dargli del meglio vado a cavarlo”. Lo sparire dell’oste, e entrare un birbante fu un momento. Questi con pistola alla mano investì i due seduti fittabili, e non comparendo mai l’oste, dovettero dare al birbante alcuni scudi. Fu arrestato l’oste, perché creduto connivente, non essendo rinvenuto dalla cantina, se non dopo sparito il birbante”.


L. MANTOVANI, Diario politico ecclesiastico, a cura di Paola Zanoli, Roma, Istituto storico italiano per l'età moderna e contemporanea, vol.V, pag. 265.

martedì 19 luglio 2011

Le mani nelle tasche degli italiani e i cattivi della finanza internazionale

I nostri politici promettono riforme epocali con progetti di mutamento costituzionale che si rivelano per quello che sono: penosi ritocchi a un sistema che continuerà a fare acqua da tutte le parti.

Fino a poche settimane fa Berlusconi assicurava che non avrebbe messo le mani nelle tasche degli italiani. La manovra finanziaria approvata dal Parlamento in tempi di record non solo autorizza lo Stato a metterle quelle mani, ma sembra perfino strappare ai cittadini  le tasche in cui ripongono i loro risparmi. E Berlusconi che fa? Tace.

Nel frattempo la classe politica attestata in Parlamento (di centro-destra e di centro-sinistra) non riesce a staccarsi da un sistema che consente i vergognosi privilegi di cui gode.
Il progetto costituzionale presentato da Calderoli è insufficiente perché costituisce in buona parte la riesumazione della riforma approvata dal centro-destra nel 2005 e bocciata dagli italiani con referendum nel 2006.

A quanto sembra, "i cattivi ragazzi della finanza internazionale"- come li ha ben definiti Giuseppe Turani in un suo interessante editoriale - dovranno bastonare ulteriormente l'Italia per far rinsavire i nostri politici.

lunedì 18 luglio 2011

Mentre è guerra tra Porcellum e Mattarellum si avvicina l'ora X delle grandi riforme per il Paese


La legge elettorale che ci troviamo tra i piedi è volgarmente conosciuta come Porcellum grazie a un fortunato articolo di Giovanni Sartori che ebbe a coniarla con questa curiosa espressione dopo che il suo estensore, il ministro Roberto Calderoli, non aveva esitato a definirla una “porcata”. La legge non è certamente un modello di democrazia. Due i tratti distintivi che l’hanno resa indigeribile allo stomaco forte degli italiani, i quali – com’è noto – digeriscono (quasi) tutto. Anzitutto il premio di maggioranza pari al 55% dei seggi con cui alla Camera dei Deputati viene favorita la coalizione che ha riscosso il maggior numero di consensi. Nessuno avrebbe alcunché da obiettare se tale coalizione avesse una maggioranza del 51% degli elettori. Il guaio è che il premio scatta in favore di alleanze tra partiti che, pur avendo raggiunto il 40%, il 30% o addirittura il 20% dei voti, costituiscono non già la maggioranza, ma una minoranza ancorché fortissima; una legge che consente ai partiti che sono minoranza nel paese la maggioranza assoluta dei seggi nella Camera dei Deputati è scarsamente compatibile con un regime democratico. Diversa la composizione del Senato, regolato da premi di maggioranza su base regionale. In fondo, la filosofia che sorregge il Porcellum non è molto diversa da quella della legge Acerbo del 1923: promossa per volontà del presidente del consiglio Benito Mussolini in regime non ancora fascista, assegnava il 66% dei seggi alla lista che avesse conseguito il 25% dei voti. Come si vede, cambiano le percentuali ma la filosofia resta la stessa. I partiti – di tutti i colori - non hanno mai cessato di fabbricarsi una legge elettorale tesa ad agevolare la loro marcia per la conquista e la conservazione del potere.

Attualmente sono due gli schieramenti che raccolgono le firme per indire un referendum abrogativo contro la legge vigente. Sono alquanto popolari perché navigano con andatura di poppa grazie al forte vento della partecipazione popolare che è spirato negli ultimi mesi, Del primo fanno parte i “paladini dell’alternanza”: si tratta di un gruppo composto in larghissima parte di esponenti del centrosinistra, da Arturo Parisi a Sofia Ventura, da Antonio Di Pietro a Nichi Vendola. Hanno le idee abbastanza chiare. Intendono ristabilire la normativa precedente al Porcellum, il Mattarellum, denominazione anch’essa di conio sartoriano risalente al suo inventore Sergio Mattarella. Questa legge, che nel nostro paese ha regolato le elezioni politiche dal 1994 al 2005, distribuiva i seggi di Camera e Senato in forza di un meccanismo che per il 75% era informato al sistema uninominale a un solo turno in piccoli collegi (passa il candidato che ha ricevuto i maggiori consensi sul modello inglese) e per il restante 25% da un sistema proporzionale a liste bloccate redatte in via esclusiva dalle segreterie di partito. In altri termini il voto di preferenza dei cittadini, previsto nelle schede dell’uninominale, era limitato dal “proporzionale” a liste bloccate. Si diceva che tale legge avrebbe assicurato stabilità con l’elezione diretta del premier e l’alternanza tra due schieramenti. Come ben previde a suo tempo Giovanni Sartori, i fatti smentirono ampiamente tali  teorie.

I promotori del Mattarellum ritengono che tale legge sia positiva per tre ragioni. Anzitutto perché reintroduce l’importante voto di preferenza. In secondo luogo perché la ristretta dimensione dei collegi uninominali lega maggiormente i candidati ai territori vietando la possibilità di presentarsi contemporaneamente in più collegi. In terzo luogo perché il sistema cosiddetto maggioritario determinerebbe una maggiore tenuta del bipolarismo, il sistema politico fondato sull’alternanza al potere di due schieramenti contrapposti ritenuto fondamentale per la stabilità del Paese. 

Sul primo punto è lecito nutrire alcuni dubbi, visto che il voto di preferenza riguarda solo il 75% dei collegi uninominali dai quali dipenderebbe l’elezione di gran parte del Parlamento. Non si capisce per quale motivo i promotori del Mattarellum, decisi ad abrogare il Porcellum perché antidemocratico, vogliano reintrodurre una legge che, sia pure per il 25% dei seggi, prevede la conservazione delle liste bloccate fatte dai partiti. Se questi sono i democratici che si oppongono al berlusconismo, stiamo freschi. Quanto al secondo punto nulla da obiettare, anche se l’uninominale secco a un turno non mi sembra un procedimento rispettoso delle minoranze, non foss’altro perché vincerebbe qualsiasi candidato abbia riscosso una percentuale di consensi inferiore alla maggioranza assoluta degli elettori (51%). E’ vero che tale sistema funziona bene in Inghilterra, ma questo non è un buon motivo per importarlo in Italia. Il bipartitismo anglosassone, che ha dato buona prova in un sistema di antica unità, non si attaglia al nostro Paese irriducibilmente policentrico, innervato di tradizioni storico culturali, interessi economici e politici troppo diversi per essere ridotti a due partiti o schieramenti contrapposti. Sulla presunta alternanza e governabilità garantite dal Mattarellum, basta confrontare il numero di elezioni con il numero dei governi formati tra il 1994 e il 2005 per accorgersi come tali traguardi siano stati clamorosamente mancati: tre elezioni politiche (1994, 1996, 2001) alle quali si son succeduti sei governi (Berlusconi I, Dini, Prodi, D’Alema, Amato, Berlusconi II).

Il secondo gruppo di oppositori al Porcellum, lungi dal desiderare il Mattarellum, punta ad emendare con referendum abrogativo i tratti più antidemocratici della legge vigente lasciandone invariato l’impianto “proporzionale”. In sostanza vorrebbero tornare alla “Prima Repubblica”, anche se – dell’attuale legge in vigore – resterebbe la clausola di sbarramento al 4% estesa a tutti i partiti. A questo secondo gruppo, animato dal senatore Stefano Passigli e sostenuto dal leader dell’Udc Pier Ferdinando Casini, hanno aderito uomini di cultura come Valerio Onida, Giovanni Sartori, Enzo Cheli, Claudio Abbado. Non è scorretto definirli “i conservatori della Prima Repubblica” perché vorrebbero una legge elettorale con i seguenti requisiti: 1. abolizione del premio di maggioranza  2. reintroduzione del voto di preferenza. 3. divieto ai partiti di unirsi in coalizione; 4. abolizione della norma che prescrive l’indicazione sulla scheda elettorale del candidato premier. Relativamente a ques'ultimo punto, si oppongono all’elezione diretta del presidente del consiglio perché darebbe al nostro ordinamento, formalmente parlamentare, le sembianze di un semi-presidenzialismo non previsto dalla Carta del 1948.

Bisogna riconoscere che il secondo gruppo è mosso da istanze autenticamente democratiche, certamente più vicine alla complessa realtà italiana di quanto non siano i “paladini dell’alternanza”. L’abolizione del premio di maggioranza e la  p i e n a  reintroduzione del voto di preferenza sono proposte condivisibili, ispirate a un maggiore rispetto del voto popolare nella composizione degli organi di rappresentanza e di governo. Qualcuno potrebbe affermare che, senza il premio di maggioranza, torneremmo all’instabilità della Prima Repubblica. E’ un’obiezione palesemente infondata: se i governi - allora come oggi - cadevano dopo pochi anni, questo era dovuto non già alla legge proporzionale, ma alla mancanza nella Costituzione di clausole tese ad assicurare la governabilità. In Germania la sfiducia costruttiva consente esecutivi tendenzialmente stabili, obbligando il Bundestag a dimettere il governo con una maggioranza che sia concorde nell’indicare il nuovo cancelliere. In Francia, ove vige una forma di governo semi-parlamentare, l'assemblea elettivo-rappresentativa  può sfiduciare la parte collegiale del governo (premier e ministri), non il presidente della repubblica titolare del potere esecutivo; quest'ultimo, eletto direttamente dai francesi, detiene peraltro il delicato potere di scioglimento delle camere.

I punti deboli della proposta Passigli sono essenzialmente due: il divieto di formare coalizioni di partiti e il rifiuto dell’elezione popolare del premier, ritenuta incostituzionale. Su quest’ultimo punto i “conservatori della Prima Repubblica” hanno ragione a giudicare scarsamente conciliabile con la forma di governo parlamentare una legge elettorale (sia essa il Porcellum o il Mattarellum) che consente l’iscrizione del candidato premier nella scheda elettorale. Credo tuttavia che i benefici di un’elezione diretta del premier siano senz’altro positivi perché spingono i partiti ad unirsi sulla base di programmi sottoposti al controllo dei cittadini. 

Il problema dell'Italia è la diffusa convinzione che il principio dell'alternanza - principio basato sul sistema politico bipolare - sia un bene per il Paese e non debba in alcun modo essere abbandonato. Hanno ragione i "conservatori della Prima Repubblica" quando sostengono che il bipolarismo di questi ultimi vent'anni sia stato un male per il Paese. Il problema non si risolve tuttavia cambiando unicamente il Porcellum. La "Prima Repubblica" ha sofferto mali peggiori: governi di breve durata, frequenti elezioni, perenne instabilità, politiche economiche irresponsabili. L'unico punto di forza del sistema politico anteriore a Tangentopoli risiedeva nel metodo di concertazione tra i maggiori partiti che sedevano in Parlamento e formavano il governo. Occorre recuperare quel metodo, oggi quanto mai necessario per far dialogare le varie parti del Paese. Ma un governo di larghe intese, sottoposto al controllo dei cittadini, che possa durare una legislatura per affrontare serenamente i problemi del Paese con adeguati strumenti legislativi, può essere ottenuto a mio giudizio con un mutamento della forma di governo parlamentare. Alcuni storceranno il naso ma sessantacinque anni di parlamentarismo hanno dimostrato assai bene come la classe politica italiana sia rimasta in gran parte lontana dall'etica del servizio ai cittadini. Com'è possibile allora conciliare la governabilità con l'esigenza di aprire il governo alle principali forze politiche radicate nelle varie aree del Paese?  

Credo che le soluzioni più opportune siano essenzialmente due, alle quali dovrebbero accompagnarsi riforme radicali che oltrepassano il tema della legge elettorale. Anzitutto occorre inserire nella nostra Costituzione un articolo che introduca un meccanismo di sfiducia costruttiva ancor più rigoroso rispetto a quello vigente in Germania. La sfiducia costruttiva, completamente assente nella nostra Costituzione, andrebbe rafforzata per evitare i colpi di mano dei parlamentari ai danni del governo. La maggioranza qualificata del Parlamento (2/3 dei membri) dovrebbe sfiduciare l’esecutivo a due condizioni: essa sarebbe tenuta ad indicare un candidato premier e, in caso di approvazione della mozione di sfiducia,  lo scioglimento dell’assemblea dovrebbe essere immediato. In tal caso si andrebbe ad elezioni anticipate e gli italiani sarebbero chiamati non solo a rinnovare il parlamento, ma ad eleggere direttamente il presidente del consiglio scegliendo tra il premier sfiduciato e il candidato proposto dall’assemblea. 

La seconda riforma di cui avrebbe bisogno il nostro Paese riguarda la separazione netta tra il governo e il parlamento: chi siede nell'assemblea non dovrebbe mai far parte dell'esecutivo e lo stesso dovrebbe valere per chi esercita funzioni di ministro. In tal modo si taglierebbero alla radice quei conflitti di interesse che spesso decidevano la sorte dei governi nella "Prima Repubblica". Tale  riforma, come ho già accennato poco sopra, presuppone il cambiamento della forma di governo parlamentare. Non credo che il presidenzialismo statunitense o il sistema semi-parlamentare francese siano adatti al nostro Paese. Credo invece che una forma di governo direttoriale possa conciliare nel modo migliore le diverse Italie in cui il Paese è da sempre articolato.  

L'introduzione di una forma di governo non parlamentare, direttoriale per l'appunto, non può andar disgiunta dall'altra grande riforma clamorosamente mancata nel nostro Paese: il mutamento della forma di Stato. La Repubblica Italiana, una e indivisibile, unitaria e parlamentare, dovrebbe essere sostituita da una Confederazione di tre Repubbliche (Nord Italia, Centro Italia, Sud Italia) governata da un Direttorio composto dai Governatori dei tre Stati italiani (eletti dalle rispettive popolazioni) e da un presidente federale eletto direttamente dai cittadini italiani in due tornate. Composto di poche persone (5 o al massimo 7 direttori), il governo federale sarebbe in grado di esercitare le sue funzioni in modo rapido e incisivo nel rispetto del pluralismo politico territoriale in cui il Paese è articolato da sempre e sotto gli occhi di tutti. In questo modo, trasferendo larga parte delle funzioni politiche e amministrative oggi gestite dal governo nazionale a poteri pubblici territorialmente estesi e soggetti al controllo dei cittadini, sarà possibile conciliare la governabilità con il rispetto rigoroso del pluralismo politico territoriale. I governi delle tre Repubbliche italiane sarebbero anch'essi a forma direttoriale composti dal  Governatore e dai presidenti delle attuali Regioni. 

Un cambiamento di tale portata, che comporterebbe la riforma pressoché integrale della Costituzione repubblicana,  può essere fatto solo in circostanze drammatiche. La situazione critica in cui versa l'Italia dovrebbe spingere gli italiani a (ri)scoprire un modello di convivenza poggiante sul ruolo basilare del pluralismo territoriale. Il che è poi la sostanza del federalismo che, come ci insegnava Gianfranco Miglio, lungi dal fondare l'Unità, tende per sua natura a tutelare e a gestire le diversità. 

venerdì 8 luglio 2011

Silvio lascia ad Angelino il Pdl, nave "sanza nocchiero in gran tempesta"

Il Cavaliere ha annunciato che alle prossime elezioni politiche non sarà il candidato premier per il Popolo della Libertà. E' significativo che abbia manifestato tale decisione nel corso di un'intervista concessa a "La Repubblica", il quotidiano che, or son quasi due anni, non esitò ad attaccare invitando gli industriali a boicottarne i finanziamenti. Cambiando radicalmente strategia, come d'altra parte è suo costume, il Cavaliere sceglie il giornale diretto da Ezio Mauro per dare al pubblico una notizia che i suoi "delfini" attendevano con trepidazione. L'obiettivo è facilmente intuibile: risollevare il centro-destra dal tracollo subito nelle ultime prove elettorali.

Vien da chiedersi se l'investitura di Angelino Alfano a segretario del partito sia sufficiente a raddrizzare la barca del centro-destra. Il ministro della giustizia è uomo brillante, capace, profondamente versato nel campo della giurisprudenza; senza dubbio la persona che ha dimostrato in questi anni di servire il padrone senza "se" e senza "ma". Tali doti, che hanno consentito ad Alfano una scalata fulminea ai vertici del partito, rischiano tuttavia di essere osteggiate dall'elettorato; un elettorato, come dimostrano i risultati dei referendum, che anche nel centrodestra ha mostrato di rigettare le logiche oligarchiche di una politica abissalmente lontana dal paese. Insomma, un uomo come Alfano, che ha servito gli interessi di Berlusconi con tanta fedeltà e pervicacia, ben difficilmente potrà rappresentare la spinta al cambiamento che i cittadini si aspettano.

Ricorrendo a una metafora eminentemente politica, nel Pdl nessuno sembra essersi accorto che, uscito di scena Berlusconi, c'è ancora un cadavere da sotterrare: il berlusconismo.

martedì 21 giugno 2011

Il burattino di Pontida

Berlusconi regge con la maggioranza che è riuscito a coagulare intorno a sé, in un modo o nell'altro. Bossi risponde: "nulla è scontato". Da dieci anni il Senatùr è un burattino che cerca di nascondere la mano di chi lo muove.

lunedì 20 giugno 2011

Pontida e i "penultimatum" della Lega

Non c'è che dire. Il cielo azzurro, il sole sfolgorante e il soffio di una dolce brezza di montagna hanno portato bene a quanti hanno trascorso il fine settimana al mare o in montagna. Ha portato male ai leghisti di Pontida, i quali si aspettavano di festeggiare il bel tempo con l'imminente caduta del governo Berlusconi ad opera di Umberto "il Giustiziere" e invece son rimasti a bocca asciutta. Hanno masticato amaro quanti speravano in un gesto risolutivo.

Il capo e i colonnelli ce l'hanno messa tutta per convincere la folla che la Lega di lotta non è ancor spenta. Musiche tratte dal film Braveheart, la voce tonitruante di uno speaker esaltato, parole di sostegno nei confronti degli artigiani e degli allevatori, promesse di riscrittura del patto di stabilità per consentire ai sindaci dei Comuni virtuosi di poter spendere le risorse accumulate in anni di buona amministrazione. Peccato che una parte della base, stufa di esser presa in giro dopo anni di bugie sul "federalismo fiscale", non ne voleva sapere di false promesse.

La novità stava tutta in un foglietto distribuito ai militanti che nelle intenzioni degli organizzatori doveva suonare come un ultimatum all''amico Berlusconi' e all''amico Giulio'. Intendiamoci. Un partito ridotto ormai a una larva se non alla caricatura della Lega dei primi anni Novanta, più che ultimatum oggi può rivolgere timide suppliche al principe di Arcore. Nulla di strano se un giorno si scoprisse che le richieste da "penultimatum" sono frutto di una stesura a tavolino tra l'amico Silvio, l'amico Giulio e il club ristretto Bossi-Calderoli-Maroni-Castelli in uno degli ultimi vertici di Arcore. Un programmino, quello contenuto nel "penultimatum", di cui presto non si sentirà parlare che in qualche osteria della fascia pedemontana tra Como e Treviso. Insomma, chi sperava nel botto - la rottura con Berlusconi -  è rimasto deluso. Eppure, bastava leggersi il bel volume di Leonardo Facco, Umberto Magno. La vera storia dell'imperatore della Padania (Reggio, Aliberti 2010), per capire cosa sia diventata la Lega in quest'ultimo decennio.

Tra le varie richieste presentate a Berlusconi, il Senatùr ha rilanciato il tema dello spostamento dei ministeri da Roma. "Tre dicasteri a Monza, uno a Milano" ha detto Bossi rivolgendosi alla folla dei suoi aficionados. Intendiamoci. Di quali uffici si tratti nello specifico, nulla è dato sapere. L'unica certezza è che alcune scrivanie del suo ministero "senza portafoglio" (quello "per le Riforme e per il Federalismo") verranno trasferite nella Villa Reale di Monza.

Diciamo la verità. Ieri si son viste le comiche. Il Capo e Calderoli, assisi sul palco, mostravano alla folla la targa sfolgorante del nuovo ministero brianzolo portata da un inebetito quanto ossequiente sindaco di Monza; il quale, atteggiandosi con un certo spirito di sudditanza e devozione nei confronti del Capo, ha perfino estratto dal cilindro la chiave che - stando alla sue parole - consente l'accesso alla Villa Reale; una vera e propria chiave magica destinata ad aprire le decine di porte del maestoso edificio.

Già mi par di vedere rigirarsi nella tomba l'arciduca Ferdinando d'Austria figlio dell'imperatrice Maria Teresa, che nella seconda metà del Settecento riuscì a convincere la madre a finanziare la costruzione della magnifica reggia nella campagna brianzola. Mi chiedo: come può la villa costruita dal grande Piermarini ove vissero arciduchi e arciduchesse, viceré e viceregine, re e regine, simbolo del potere politico di un potente Stato regionale nel Nord Italia, come può esser ridotta a misera dépandance di un ministero romano, per giunta "senza portafoglio"? Misteri della politica, enigmi dell'oscurità bossiana.

La morale è che il decentramento dei ministeri sarà l'ennesima boutade destinata ovviamente a non essere realizzata. Peccato. Tale proposta, se inserita in un piano di riforma autenticamente federale, non sarebbe poi così campata per aria. Negli Stati federali gli uffici dei dicasteri sono diffusi sul territorio. La ragione è presto detta. In un ordinamento federale non esiste la concentrazione del potere nella Capitale, perché in una Federazione le Capitali sono molte e diverse, come molti e diversi sono gli Stati membri del patto confederale. Il guaio è che la proposta leghista, nei termini in cui è stata formulata, ha l'aria di una richiesta improvvisata, buttata lì per non deludere i militanti. Una proposta in fin dei conti assai poco credibile. Come si può pensare di concentrare a Monza tre dicasteri? Che senso può avere? Monza merita forse tanta importanza rispetto alle altre città del Nord Italia e della penisola? Perché non pensare invece di spostare alcuni ministeri nelle città che furono un tempo antiche Capitali di Stati regionali? Milano, Torino, Venezia, Parma, Modena, Bologna, Firenze, Roma, Napoli, Palermo? Lo scrissi su questo blog or è quasi un anno. 

Eppure, a sentir le reazioni del sindaco dell'Urbe Gianni Alemanno, della governatrice del Lazio Renata Polverini, del leader dell'Italia dei Valori Antonio Di Pietro e di buona parte della sinistra, sembra che il federalismo sia estraneo alla cultura di questo Paese. A me sembra che molto debba ancora esser fatto. La ragione suggerisce di essere ottimisti. La lezione dei fatti italiani - come direbbe Machiavelli - induce a un moderato pessimismo.

lunedì 21 febbraio 2011

Quando i Milanesi festeggiavano Sant'Ambrogio armato di staffile...

Il 21 febbraio 1339, nei pressi di Parabiago, le truppe del signore di Milano, Azzone Visconti, si scontrarono contro l'armata guidata dal cugino Lodrisio, deciso a spodestare il parente e ad impadronirsi del potere.

Come si svolse la battaglia?
Azzone poteva contare sullo zio Luchino, ottimo comandante militare. Lodrisio invece era appoggiato dal signore di Verona, Martino della Scala, che gli aveva fornito una nutrita schiera di soldati tedeschi, molti dei quali appartenevano probabilmente all'esercito dell'imperatore Ludovico il Bavaro. Lodrisio era anche conte del Seprio e in tale veste, entrato nel milanese dopo aver varcato l'Adda, si era diretto nei suoi domini per procurarsi risorse e reclutare nuovi armati.

La battaglia di Parabiago, svoltasi sulla neve, fu particolarmente atroce. La vittoria parve arridere inizialmente alla compagnia di San Giorgio: a questo santo, particolarmente diffuso nei paesi nordici, Lodrisio aveva infatti dedicato il suo esercito. I milanesi scelsero invece di inalberare le insegne di Sant'Ambrogio. Insomma, quello che fu in realtà lo scontro di due bande di armati assunse ben presto i segni di una guerra tra santi.

Luchino cadde prigioniero di Lodrisio e, legato a un albero, fu costretto ad assistere impotente allo svolgersi degli eventi. Tuttavia, nel corso della giornata, nuove truppe accorsero in aiuto dei milanesi. Essi poterono rovesciare le sorti del conflitto e annientare il nemico. Secondo l'eminente storico di Milano, Giorgio Giulini,

"In quella terribile battaglia più di tremila uomini, fra una parte e l'altra, e settecento cavalli restarono morti. Due mila e cento cavalli furono presi da' vincitori, oltre quelli che fuggirono, e quelli che furono rubati. Quasi tutti i militi, che restarono vivi, riportarono qualche ferita"
(G. GIULINI, Memorie spettanti alla storia, al governo ed alla descrizione della città e compagna di Milano ne' secoli bassi, Milano, Francesco Colombo 1856, vol. V, pag.263).

La storia, come si sa, viene scritta dai vincitori, quasi mai dai vinti. I milanesi, come da manuale, tramandarono gli eventi di Parabiago raccontando che il 21 febbraio 1339 i soldati del perfido Lodrisio erano stati scacciati non solo grazie al valore dei loro avi, ma anche per l'apparizione miracolosa di Sant'Ambrogio, vestito in abito bianco, armato di una sferza o staffile con cui non esitò a percuotere le schiere del traditore di Milano.

Cesare Cantù, nella Grande Illustrazione del Lombardo Veneto, ricordò la curiosa tradizione del 21 febbraio riconoscendo l'incredibile popolarità di quel giorno: "Tanto terrore aveva incusso quella masnada che la battaglia di Parabiago restò nelle tradizioni popolari più viva che non quelle di Legnano o d'Alessandria, e consacrandola col meraviglioso, si disse che Sant'Ambrogio era stato veduto in aria a cavallo collo staffile percotendo gli stranieri". (C. CANTU', Grande illustrazione del Lombardo Veneto, Milano, Corona e Caimi, 1858, vol.I., pag. 117).

Nel luogo ove Luchino era stato fatto prigioniero e dove si diceva fosse apparso Sant'Ambrogio, i Visconti fondarono una chiesa dedicata al protettore della città. I signori di Milano stabilirono inoltre che il 21 febbraio le autorità e il popolo cittadino si recassero in pellegrinaggio a Parabiago perché fosse serbata perenne memoria di quell'evento.

Pietro Verri, nella sua Storia di Milano, non esitò a commentare con ironia la festa milanese di Sant'Ambrogio alla Vittoria:

Come mai questo fatto d'armi si rendesse tanto celebre, e come ne' giorni fausti siasi tanto distinto il 21 di febbraio, e nessuna menzione trovisi fatta del giorno, ben più memorando, 29 di maggio, in cui l'anno 1176 venne totalmente battuto Federico Primo dai Milanesi, potrebbe essere il soggetto d'un discorso. Nel primo caso un ribelle, che non aveva Sovranità o Stati, fu sconfitto da un Principe che dominava dieci Città (Milano, Pavia, Cremona, Lodi, Como, Bergamo, Brescia, Vigevano, Vercelli e Piacenza NdR); nel secondo, una povera Città, che aveva sofferto mali estremi, sconfisse un potentissimo Imperatore che aveva fatto tremare la Germania, l'Italia e la Polonia. Nel primo caso si combatté per ubbidire più ad Azone che a Lodrisio; nel secondo si combatté per essere liberi, o per essere schiavi. Pare certamente che meritasse celebrità assai maggiore la giornata 29 maggio. Ma la fortuna ha molta parte nel distribuire la celebrità. E vero che una nascente Repubblica nel secolo duodecimo non aveva né l'ambizione né i mezzi che poteva avere un gran Principe nel secolo decimoquarto per tramandare ai posteri un'epoca gloriosa. (P. VERRI, Storia di Milano, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, pp.312-313).

Bisogna riconoscere tuttavia che i milanesi non avevano tutti i torti a festeggiare il 21 febbraio con tanta solennità. Essi ritenevano che Lodrisio avesse combattuto per ambizioni personali con un esercito composto in larghissima parte di stranieri (tedeschi e veronesi). Anche Azzone e i suoi parenti combatterono per interessi personali: essi difesero la signoria viscontea in una città che aveva perso ormai le libertà comunali. Tuttavia, diversamente da Lodrisio, Azzone governò Milano come legittimo signore della città, riconosciuto come tale dai milanesi. Per questo motivo la festa di Parabiago venne percepita come una festa autenticamente meneghina.

La difficoltà di recarsi a Parabiago in una stagione che a quei tempi rendeva particolarmente difficili gli spostamenti, indusse San Carlo Borromeo, nella seconda metà del XVI secolo, a riformare il calendario abolendo quella festa. I milanesi continuarono tuttavia a celebrare la ricorrenza, che venne sentita come una vera e propria festa civica. Fu così stabilito che il 21 febbraio, giorno della festa di Sant'Ambrogio alla Vittoria, la processione si svolgesse entro la città di Milano e terminasse nella basilica di Sant'Ambrogio.

venerdì 11 febbraio 2011

La natura non federale del ‘federalismo municipale’

Un buon progetto di autonomia finanziaria dei Comuni che nulla ha però da spartire con il federalismo. Questo il giudizio di fondo che si ricava da una rapida lettura del decreto legislativo sul ‘federalismo municipale’; il decreto, che non è passato all’esame consultivo della ‘bicameralina’ per parità di voti (15 a 15 per il no decisivo del finiano Mario Baldassarri), verrà approvato tra pochi giorni in Parlamento per espressa volontà del governo, deciso a farlo passare con il voto di fiducia.

Quali sono in sostanza le linee di fondo di questa riforma? La normativa inciderà in misura notevole sull’autonomia dei Comuni. Oggi gli enti locali si finanziano potendo contare su proprie fonti di gettito e sui trasferimenti che lo Stato centrale attua in base al criterio della spesa storica. Tale criterio produce spesso inefficienza perché ogni anno i sindaci dei comuni male amministrati incassano la stessa ingente quantità di fondi; i cittadini di quei municipi, non avendo la percezione dei costi effettivi della macchina burocratica locale – costi oggi pagati in larga parte dallo Stato mediante i trasferimenti - non possono esercitare alcun controllo effettivo sulla destinazione di quei fondi. Con ogni probabilità le cose cambieranno sensibilmente con la nuova normativa.

I Comuni, soppressi i trasferimenti dello Stato centrale sulla base della spesa storica, potranno finanziarsi con una serie di strumenti che serviranno a pagare il fabbisogno standard, vale a dire il costo medio dei servizi essenziali che i Comuni dovranno sostenere tanto al Nord quanto al Sud. Il sindaco che vorrà incassare più risorse per garantire ulteriori servizi ai suoi cittadini, dovrà introdurre apposite “tasse di scopo”, il che lascia presupporre che sarà costretto ad operare in modo trasparente di fronte ai suoi amministrati.

La normativa predisposta dal governo ha il merito di decretare l’eliminazione o l’accorpamento di 10 delle 18 forme impositive attualmente esistenti. L’imposta municipale unica (IMU) raggrupperà gran parte delle attuali tasse comunali, a partire dall’Ici sulle seconde case e sugli esercizi commerciali. Val la pena ricordare, a tal proposito, che l’Ici sulle prime abitazioni non verrà reintrodotta come invece chiedevano i finiani.

Il secondo strumento cui potranno ricorrere i sindaci in seguito all’approvazione del decreto sul ‘federalismo municipale’ sarà l’imposta municipale secondaria (IMU2) nella quale verranno raggruppate altre tasse locali. I Comuni potranno poi beneficiare della cedolare secca sugli affitti, il cui gettito è stimato a un livello superore ai 15 miliardi di euro. E’ previsto inoltre lo sblocco dell’addizionale comunale Irpef, la cui soglia, come concordato dal governo con l’Anci (Associazione nazionale dei comuni italiani), non sarà superiore allo 0,4%. Dal 2014 i Comuni italiani, per finanziare la spesa standard, potranno infine ricorrere alla compartecipazione a una serie di tributi statali calcolata su base provinciale: l’imposta sul registro, l’imposta di bollo, l’imposta ipotecaria e catastale, l’Iva per 2,8 miliardi di euro.

Merita infine di essere ricordato che, a partire dal 2011, verrà costituito un fondo sperimentale di riequilibrio della durata di cinque anni: ad esso potranno attingere i Comuni che non saranno riusciti a coprire la spesa standard. Il fondo sarà alimentato dal gettito degli stessi tributi cui attingeranno i Comuni a partire dal 2014 mediante le già ricordate forme di compartecipazione.

Alcuni opinionisti hanno sostenuto che questa normativa finirà con l’aumentare il divario tra i Comuni del Nord e i Comuni del Sud. A ben vedere, se si tiene conto del fondo perequativo e delle varie forme di compartecipazione ai tributi erariali, è difficile pensare che i Comuni dei territori più poveri verranno considerevolmente penalizzati. Occorre invece riconoscere che il decreto del governo ha il merito di rendere più difficili sprechi di risorse pubbliche grazie all’introduzione della spesa standard che annullerà definitivamente l’opposto principio della spesa storica, causa di inefficienza e di spreco di risorse pubbliche.

Non c’è che dire: nel complesso è una buona normativa. Se una critica può esser mossa al governo, bisogna rilevare che il nome con cui è stata definita tale riforma (federalismo municipale) non ha niente da spartire con il suo contenuto, riguardante – come si è cercato di spiegare in questa sede – l’autonomia finanziaria dei municipi e nulla di più. Il decreto legislativo poggia sull’amministrazione finanziaria dello Stato unitario e presuppone l’esistenza di quest’ultima per la sua concreta realizzazione; il che, come è facile intuire, costituisce la palese negazione del federalismo. Nei decreti delegati approvati dal governo o in via di approvazione la fissazione delle imposte (dirette e indirette) e la loro riscossione non è competenza delle maggiori Comunità territoriali, come avverrebbe in un regime federale. Il presidente della Corte Costituzionale Ugo De Siervo in un’intervista del 4 febbraio scorso, nel commentare la legge sul “federalismo municipale” ha rilevato opportunamente il marchiano errore terminologico compiuto dal governo: “il federalismo è un processo di unificazione progressiva di Stati che erano sovrani verso un unico Stato gestore. Che cosa c’entra questo con l’autonomia finanziaria dei Comuni decisa dal Parlamento nazionale? Con il termine federalismo si spaccia ciò che è autonomismo degli enti locali” (intervista a cura di Donatella Stasio per “Il Sole 24 Ore”). Per capire come l’autonomia finanziaria dei comuni possa essere realizzata in un regime autenticamente federale, varrà la pena ricordare il caso della Svizzera, dove la legislazione tributaria dei Comuni, lungi dall’essere competenza della Confederazione, viene regolata in via esclusiva dai Cantoni; la compartecipazione dei Comuni avviene in quel paese con addizionali poste sui tributi cantonali, non sulle imposte federali. Ora, nel sedicente “federalismo municipale” le quote di compartecipazione riguardano i tributi dello Stato, tributi che vengono decisi e riscossi dall’amministrazione centrale. Insomma, a me pare che siamo lontani anni luce dai principi del federalismo.

venerdì 4 febbraio 2011

Il caso Ruby mette a nudo le vergogne degli italiani

In rete sta circolando un breve scritto di Elsa Morante (1912-1985). 
Benito Mussolini è la persona su cui si concentrano le riflessioni della scrittrice. 
Lo riporto integralmente perché mi sembra attuale. 


A seguire, alcune mie considerazioni. 




"Il capo del Governo si macchiò ripetutamente durante la sua carriera di
delitti che, al cospetto di un popolo onesto, gli avrebbero meritato la
condanna, la vergogna e la privazione di ogni autorità di governo. Perché
il popolo tollerò e addirittura applaudì questi crimini? Una parte per
insensibilità morale, una parte per astuzia, una parte per interesse e
tornaconto personale. La maggioranza si rendeva naturalmente conto delle
sue attività criminali, ma preferiva dare il suo voto al forte piuttosto
che al giusto. Purtroppo il popolo italiano, se deve scegliere tra il
dovere e il tornaconto, pur conoscendo quale sarebbe il suo dovere, sceglie
sempre il tornaconto. 



Così un uomo mediocre, grossolano, di eloquenza volgare ma di facile
effetto, è un perfetto esemplare dei suoi contemporanei. Presso un popolo
onesto, sarebbe stato tutt'al più il leader di un partito di modesto
seguito, un personaggio un po' ridicolo per le sue maniere, i suoi
atteggiamenti, le sue manie di grandezza, offensivo per il buon senso della
gente e causa del suo stile enfatico e impudico. In Italia è diventato il
capo del governo. Ed è difficile trovare un più completo esempio italiano.
Ammiratore della forza, venale, corruttibile e corrotto, cattolico senza
credere in Dio, presuntuoso, vanitoso, fintamente bonario, buon padre di
famiglia ma con numerose amanti, si serve di coloro che disprezza, si
circonda di disonesti, di bugiardi, di inetti, di profittatori; mimo abile,
e tale da fare effetto su un pubblico volgare, ma, come ogni mimo, senza un
proprio carattere, si immagina sempre di essere il personaggio che vuole
rappresentare." 




Le indagini portate avanti dai pm di Milano nei confronti della vita privata del presidente del Consiglio hanno gettato il Paese in uno stato di turbamento e di profondo disagio. Mai come in questi giorni l’Italia ha dimostrato di essere alla deriva non solo in base ai valori etico morali, ma ancor più sul piano dei principi che stanno alla base dello Stato di diritto europeo liberal-democratico. Perché qui – bisogna esser chiari fino in fondo – a scandalizzare non è tanto la vita privata del presidente del consiglio. A suscitare indignazione è l’indifferenza, il disinteresse, la sostanziale apatia di noi italiani. 




Il popolo italiano non esiste. E' sempre stata l'invenzione di una minoranza di poeti, intellettuali e politici spregiudicati. Gli italiani non sentono di appartenere a una comunità nazionale perché c'è sempre stata una classe politica  s e p a r a t a  dalla società che ha pensato per loro, che si è occupata di politica facendo - spesso male - quel che loro stessi avrebbero dovuto controllare che fosse fatto bene. Non c'è in Italia una cultura civica. Questo spiega l'apatia, l'indifferenza, il totale disinteresse di larga parte dei cittadini nei confronti della politica, buona o cattiva che sia.


Si può sostenere con relativa attendibilità che in 150 anni alcune minoranze hanno confezionato tre camice di forza per gli italiani: prima lo Stato monarchico ('parlamentare' e accentrato), poi lo Stato fascista (governativo e accentrato), infine la Repubblica italiana (parlamentare, decentrata e a tratti 'autonomista' ma in realtà partitocratica). Tre regimi imposti dall'alto, tre poteri pubblici nei quali gli italiani hanno recitato quasi sempre il ruolo di comparse: comparse buone in circostanze eccezionali per le manifestazioni in piazza o per le rivoluzioni  (pensiamo alle lotte partigiane combattute contro i nazi-fascisti al centro-nord), ma tenute  rigorosamente lontane dalle stanze del potere, chiamate a intervenire solo nel giorno delle elezioni.


E' una storia che in fondo risale all'Unità. Prendiamo le leggi di unificazione amministrativa approvate dal governo il 20 marzo 1865 ed estese a tutta la penisola: la camicia, di taglia piemontese, venne fatta indossare ai popoli italiani senza coinvolgere le classi dirigenti, senza chieder loro se le misure fossero adatte alla costituzione naturale dei territori. Il risultato fu scontato: la classe politica 'italiana', nel timore di attentare all'Unità nazionale (eterno spauracchio agitato dalla classe politica contro qualunque riforma minacci di intaccare il suo potere), bocciò i timidi progetti regionalisti avanzati da Luigi Carlo Farini e da Marco Minghetti, ingabbiando il paese nel vestito di un nano (il piccolo Piemonte).


Ottantatrè anni dopo: stesso copione. Caduto il fascismo dopo vent'anni di dittatura, i nostri "padri costituenti" emanarono nel 1948 la Costituzione repubblicana guardandosi bene dal sottoporla a referendum. I francesi e gli spagnoli, riottenuta la libertà, agirono in modo diverso e chiesero al popolo di esprimersi con plebiscito sulle Costituzioni repubblicane. Da noi, nisba. Il popolo, chiamato due anni prima ad eleggere l'assemblea costituente, decise soltanto tra monarchia e repubblica. Scrisse a fine ottobre 1944 la Segreteria del Partito d'Azione dell'Alta Italia: "Che importa avere un presidente anziché un re se tutto l'apparato statale è fondato sul principio monarchico dell'autorità che scende dall'alto?" (Lettera aperta della Segreteria del Partito d'Azione dell'Alta Italia al comitato esecutivo del partito dell'Italia centro-meridionale, pubblicata in E. ROTELLI, L'avvento della Regione in Italia, Milano, Giuffré, 1967, pp.45-46). Sagge parole. Quel che avvenne è noto a tutti. Anziché rifondare l'ordinamento repubblicano su basi autonomiste e rendere democratici i Cln regionali, i partiti antifascisti scelsero di conservare l'apparato amministrativo dello Stato unitario. Un apparato amministrativo unitario e centralizzato che i fascisti avevano ricevuto in eredità dallo Stato liberale e avevano perfezionato in base alla logica autoritaria di Mussolini.


Anche negli anni della Repubblica lo Stato italiano continuò ad essere fondato sulla struttura unitaria e centralizzata della sua burocrazia, né valse l'introduzione delle Regioni (avvenuta negli anni Settanta del secolo scorso) a migliorare una situazione che divenne sempre più ingessata, pietrificata, irriformabile. Anzi. Le Regioni, lungi dall'esercitare le funzioni prima detenute da alcuni ministeri dello Stato centrale, finirono con il produrre nuova burocrazia e una congerie di uffici che appesantirono ulteriormente l'andamento dell'amministrazione pubblica.       


I difetti fondamentali che avevano segnato la fine dello Stato italiano nato dal Risorgimento finirono ben presto con il riformarsi inesorabilmente nella Repubblica Italiana. Ancora oggi, tutto viene imposto dall'alto. I cittadini sono concepiti alla stregua di minorenni eternamente immaturi. Basta guardare all'impianto della nostra Costituzione: una Carta fondata sulla centralità del Parlamento (quindi dei politici di professione) e sul ruolo marginale riservato ai cittadini e agli enti territoriali, nonostante la falsa riforma federale. Finché rimarrà questa tara, continueremo ad essere governati da una minoranza legale inevitabilmente staccata dal paese reale. Diciamolo chiaramente e una volta per tutte. Finché sarà in vigore questa Costituzione, l’Italia continuerà ad essere un Paese ove i professionisti della politica detengono il sostanziale monopolio del potere; dove i cittadini, concepiti come pupilli inadatti ad assumersi la responsabilità di decidere sui problemi più importanti, son tenuti lontano dalla politica attiva, condannati ad esprimersi nel giorno delle elezioni, nei casi alquanto rari in cui un referendum abrogativo raggiunga il quorum o nei casi in cui  i parlamentari votino una riforma della costituzione con una maggioranza inferiore ai due terzi.


La Costituzione vigente  concentra gran parte delle funzioni pubbliche negli istituti della democrazia rappresentativa, prerogativa di una classe politica normalmente mediocre. L'intellettuale meridionale Gaetano Salvemini, uno dei grandi interpreti del federalismo,  quando lesse la Costituzione del ’48, intuì con grande lucidità quel che sarebbe avvenuto e non esitò a sostenere che "il presente regime politico può essere definito il fascismo meno  Mussolini più le Regioni" (passo citato in E. ROTELLI, Regionalismo, in «Amministrare», a.XXXIV, n.3, dicembre 2004, pag.349). Non poteva dir meglio e il giudizio resta in larga parte valido nonostante il federalismo all'acqua di rose approvato dal centrosinistra nel 2000 e confermato dagli italiani con referendum.     


Ma, a ben vedere, questa situazione risale alla nostra 'nascita' come "Stato-Nazione": lungi dal costruire una Confederazione di Stati nel rispetto delle piccole patrie facendo dialogare fra loro i popoli italiani (come chiedevano i federalisti cattolici e democratici), si volle cancellare d'un tratto e con violenza inaudita il patrimonio storico giuridico degli Stati preunitari, fondando sullo Stato piemontese il nuovo regime italiano. Si dirà che tale esito era inevitabile vista l'opposizione delle classi dirigenti preunitarie alla politica del Piemonte (Austria in primis). E' vero. Questo tuttavia non basta a giustificare quanto avvenne in seguito all'unificazione, soprattutto nell'ex Regno delle Due Sicilie. Lo scollamento dei cittadini dalle istituzioni, la cesura tra paese reale e paese legale già presente in parte negli Stati preunitari, si acuì maggiormente con la fondazione dello Stato italiano.


In Svizzera avvenne il fenomeno inverso: la costruzione di un nuovo soggetto politico unitario (la Confederazione elvetica), quantunque fosse avvenuta  in modi e tempi diversi, non portò all'annientamento radicale delle radici statuali preunitarie. In Svizzera i Cantoni tendono ancora oggi ad essere i Cantoni preunitari. Possiamo dire lo stesso per le nostre Regioni? La risposta è evidentemente negativa.


Sempre in terra elvetica, nel 1874, venne introdotto il referendum legislativo per garantire piena voce al popolo allontanando il rischio che la concentrazione di alcune funzioni nella Confederazione rischiasse di produrre il dispotismo partitocratico. Oggi l'autentico federalismo a base cantonale e i referendum (propositivo deliberativi in campo legislativo e costituzionale) garantiscono alla Svizzera una vera democrazia. Beati loro. Noi dobbiamo fare i conti con lo strapotere dei partiti e con uno Stato nazionale inevitabilmente fittizio perché imposto dall'alto.


A voler essere paradossali, Berlusconi ha avuto il merito di mettere finalmente a nudo le vergogne degli italiani. Altro che 150 anni di Unità d'Italia! Il caso Berlusconi dimostra che l'Italia non esiste.


Se l'Italia esistesse e, come vanno dicendo, fosse uno Stato europeo di diritto liberal-democratico, sarebbe stato  impossibile al Cavaliere salire al potere e rimanerci così a lungo. Ma gli italiani, come scriveva bene la Morante, pensano al loro tornaconto, al loro particulare.


Il bene della comunità nazionale non esiste. E' una sovrastruttura imposta da una minoranza che pensa "amorevolmente" per gli italiani. Il risultato? Una televisione di Stato gestita dai partiti, una stampa in larga parte asservita e due milioni di miliardi di debito pubblico.