A chi capiti oggi di attraversare
piazza delle Medaglie d’Oro non può sfuggire la porta maestosa che segnava anticamente
il confine della città di Milano con la campagna in direzione sud-sud est. A
onor del vero un certo paesaggio agreste era presente anche all’interno dei bastioni
spagnoli, la cinta muraria costruita a partire dal 1545 dal governatore di
Milano Ferrante Gonzaga. Difatti la metropoli ambrosiana era articolata un
tempo in almeno due zone: la prima, compresa all’interno della cerchia del
naviglio e della cinta muraria di epoca medievale, era caratterizzata da una
fitta concentrazione di case divise tra loro da vicoli stretti e tortuosi. Al
di là del naviglio era invece la seconda zona, contraddistinta dai borghi che
traevano la loro denominazione dalle rispettive porte medievali da cui si
dipartivano i principali assi viari. Esistevano quindi sei borghi: borgo di
Porta Romana, borgo di Porta Ticinese, borgo di Porta Vercellina…e così via. In
queste zone le abitazioni - più diradate, disposte per lo più lungo i corsi
principali - costituivano un tratto
secondario, essendo nettamente predominante un paesaggio agricolo che si estendeva
fino ai bastioni.
L’arco monumentale di Porta
Romana venne innalzato nel 1598 su disegno dell’architetto Aurelio Trezzi per
festeggiare le nozze tra la principessa Margherita d’Austria e il re di Spagna Filippo
III Asburgo. Difatti sul momumento è incisa la figura di una perla rappresentata
all’interno della conchiglia madre: incisa nella facciata dell’arco rivolta un
tempo verso la campagna (oggi verso Corso Lodi), la perla denotava il significato
celebrativo del monumento. Difatti “margarita” presso gli antichi romani
significava “perla”, il che consentiva ai dotti milanesi, ai turisti e ai
viandanti di tornare con il pensiero alla regina asburgica passata per Milano alla
fine del Cinquecento. Varrà la pena ricordare che il matrimonio tra Margherita
e Filippo fu particolarmente gradito agli esponenti della patriziato e della
nobiltà milanese, che dedicarono alla giovane sposa il primo teatro stabile di
corte nel palazzo ducale: si trattava del salone “Margherita” che andò
distrutto nel 1708 a causa di un incendio.
Sul lato sinistro della porta,
all’incirca nel punto ove oggi si trova il centro ricreativo “TermeMilano”, era
un tempo un’altura artificiale eretta nel corso del XVIII secolo con sassi e
terriccio tolti dai bastioni ormai caduti in disuso. I milanesi la chiamavano
arditamente “Monte Tabor”, in riferimento al monte della trasfigurazione di
Gesù Cristo. Su quest’altura, che si trovava pressappoco allo stesso livello
dei bastioni, venne aperta un’osteria assai amata dai milanesi. Il Porta nella poesia
On Funeral (El Miserere) non mancò di
ricordarla nei discorsi tenuti da due sacerdoti amanti delle osterie, che
fecero rimare la locanda del Monte Tabor con il termine latineggiante
“dealbabor”. Scriveva il Porta:
“In seguet fan el nomm
A paricc ostarij
In dove gh’è vin bon, ost galantomm,
e mejor compagnij.
Vun loda l’ostaria de la Nos,
l’olter el Monte – Tabor,
e poeù tracc a dò vos
Domine…asperges
me…
Hyssopo,…et
super nivem dealbabor”.
Traduzione in lingua italiana:
“In seguito fanno il nome
Di parecchie osterie
Dove c’è vino buono, oste galantuomo,
e migliori compagnie.
Uno loda l’osteria della Noce,
l’altro il Monte Tabor,
e poi tracch a due voci:
Signore…mi aspergerai
Con hyssopo [pianta
aromatica usata nelle cerimonie sacre di purificazione]
… e sarò
candido come neve”.
[Carlo Porta, Poesie, a cura di Dante Isella, Milano, Mondadori 1989, pag.481]
[Carlo Porta, Poesie, a cura di Dante Isella, Milano, Mondadori 1989, pag.481]
Nel primo Ottocento erano molti i milanesi che amavano recarsi all’osteria
del Monte Tabor. Si saliva in cima a quella curiosa altura, il cui terreno digradava
in una ripida discesa verso la porta monumentale. Il Rovani, nel romanzo Cento anni, ricordava il curioso
passatempo cui erano soliti dedicarsi gli abitanti più arditi del quartiere.
Difatti la discesa del Monte Tabor serviva magnificamente al gioco delle slitte
“alla russa”, un evento che attirò ben presto l’attenzione di molti milanesi i
quali finirono per recarsi in Porta Romana al solo fine di assistere o prender
parte a questi divertimenti. Alle classiche passeggiate in via Marina o sui
ridenti bastioni di Porta Orientale (oggi bastioni di Porta Venezia) i
cittadini preferirono ben presto recarsi in Porta Romana…sul Monte Tabor.
Scriveva il Rovani nel suo romanzo, al capitolo XVII del libro XIX:
Una quarantina d’anni sono, il
corso festivo del popolo milanese, disertato dall’antica via Marina, e poscia
dai giardini e dal bastione di Porta Orientale [Porta Venezia], erasi ridotto a
porta Romana. Pare che questa deviazione, che infranse per cinque o sei anni la
secolare consuetudine, sia stata occasionata da un tale che, avendo viaggiato
in Russia, introdusse nell’osteria del Monte Tabor, posta ai fianchi della
porta Romana, il divertimento della slitta. Costui, traendo profitto degli
accidenti della giacitura di quella parte di bastione che si venne col tempo
addossando ed innalzando sulle vetuste mura di Milano, vi praticò una discesa
precipitosa di centocinquanta passi, pavimentata in legno liscio con solchi
paralleli, in cui scorrevano due ruotelle in ferro portanti una seggiola per
una sola persona, od anche per due, quando l’una avesse caro di sedere in
grembo all’altra.
Questo divertimento, per quanto
fosse puerile, come dicevano gli uomini gravi e non più giovani d’allora, fu
potente a far cambiar direzione a centomila gambe. Fosse la novità della cosa;
fosse che (siccome si usa nelle feste da ballo che il cavaliere si piglia seco
la dama o la damigella, e anche senza conoscerla, dalla usanza tiene la
sanatoria di danzare con essa e di abbracciarla a suon di musica) fosse dunque
che i giovinotti e i cacciatori d’amore avessero il permesso di tirarsi in
grembo le signore più o meno custodite, e che alle fanciulle e alle signore non
dispiacesse niente affatto di sedere a quel modo, il fatto sta che l’insolito
gioco ebbe un successo di entusiasmo e di delirio. Nelle giornate di giugno il
concorso cominciava all’alba e finiva a mezzanotte; cosa che del resto si
comprende facilmente quando si sappia che con soli cinquanta centesimi si
pagava l’ingresso e tre slitte.
[Giuseppe Rovani, Cento Anni, a cura di Beniamino Gutierrez, Milano, Rizzoli 1935, vol.II, pp.547-548]
[Giuseppe Rovani, Cento Anni, a cura di Beniamino Gutierrez, Milano, Rizzoli 1935, vol.II, pp.547-548]
Il racconto del Rovani non era per
nulla romanzato. Il canonico Luigi Mantovani, il 18 giugno 1818, ricordava nel
suo diario la folla di milanesi che si recava sul posto per assistere al gioco delle
slitte “alla russa” cui era possibile assistere presso l’osteria del Monte
Tabor sul bastione attaccato a Porta Romana. Il sacerdote ricordava che questo
passatempo attirava un tale numero di partecipanti da risultare ai suoi occhi
addirittura scandoloso. Assai accorto fu il gestore di questa iniziativa, che
era probabilmente il padrone dell’osteria. Questi seppe sfruttarla abilmente a
fini commerciali ricavando una notevole fonte di ricchezza. A lui spettava l’esclusiva
gestione del gioco, facendo pagare agli avventori un biglietto di 25 centesimi
per tre discese. Lasciamo la parola al canonico Mantovani:
“Egli era già più di un mese che
a fianchi del dazio del Porta Romana nella osteria fu fatta una discesa precipitosa
non più di 150 passi, suolata d’asse lisce con alcune fenditure, in cui
penetrano alcune piccole rotelle di ferro, su cui trovasi una piccola sediola
per una sola persona, o per due, ma l’una seduta in grembo all’altra. Qui
intervengono i cittadini a fare le slittate a somiglianza di quelle che si
fanno in Russia sul ghiaccio. A questa puerilità concorre per essere
spettatrice ed esecutrice una infinità di persone dalla prima alba sino verso
la mezzanotte. Non è credibile il concorso di carrozze, di nobiltà, dame,
gioventù, vecchi, pagando 25 centesimi all’ingresso da scontarsi o con tre
corse o con qualche acqua o bicchier di vino. Non avrei mai creduta la
popolazione nostra sì sventata di testa e irriflessiva di correre a turma a
questo gioco, o per veder questo spettacolo. L’inventore guadagna di netto ogni
giorno un coll’altro L.1.000 di Milano. La polizia ha messo in ogni legge
positiva, che non possi più come in passato andare scendendo un uomo con donna
seduta in grembo, come finora si è fatto. Chi misuri lo spazio di tempo di tali
slittate, in tempo di 7 minuti furono eseguite 32 discese. Finora non si
rallenta il concorso”.
[Luigi Mantovani, Diario politico ecclesiastico, a cura di Paola Zanoli, Roma, Istituto Storico per l'età moderna e contemporanea, 1994, vol.V., pag.94]
[Luigi Mantovani, Diario politico ecclesiastico, a cura di Paola Zanoli, Roma, Istituto Storico per l'età moderna e contemporanea, 1994, vol.V., pag.94]
A quegli spudorati organizzatori delle slitte alla
russa non può che andare il nostro plauso ammirato. Fecero divertire nelle
calure estive i giovani milanesi, i quali accorsero in gran numero attirati dalla facilità con cui, grazie a quel passatempo, era possibile
stringere tra le braccia i corpi suadenti di ragazze e donne (più o meno
custodite) desiderose solo di divertirsi e di passare un po’ di tempo in modo
spensierato. In fondo aveva ragione il Rovani quando concludeva che «quando uno, nel caso di metter fuori una ditta, sceglie per socio il
peccato, è quasi sempre sicuro di far fortuna».