La crisi politica ed economica in
cui versa l’Unione Europea sembra rafforzare i movimenti nazionalisti ed indipendentisti
che si stanno formando un po’ ovunque nel Vecchio Continente. In Italia i
movimenti orientati a promuovere l’indipendenza delle piccole patrie sono
divisi nei programmi e nelle idealità. Gli indipendentisti veneti vorrebbero
uno Stato veneto, altri invece aspirano a costituire uno Stato
padano formato dall’unione delle regioni del Nord Italia. Beppe Grillo, che di
tutto può essere accusato fuorché di nazionalismo, sembra voler proporre ai
suoi elettori l’uscita dello Stato italiano dall’Unione monetaria. I partiti
nazionalisti si spingono addirittura sino a chiedere l’uscita dell’Italia dall’Unione europea.
Nel constatare l’eterogeneità di
tali posizioni, il mio pensiero corre ai giorni convulsi dell’aprile 1814
quando, in una crisi europea seguita alla dissoluzione del dominio napoleonico,
i lombardi furono protagonisti di un moto rivoluzionario che assunse una
notevole importanza nel panorama delle rivolte antifrancesi. Anche in quei
frangenti le posizioni dei partiti in cui si articolava l’opinione pubblica a
Milano erano assai diverse, inconciliabili fra loro perché nemiche irriducibili
sul piano politico.
Nel mio libro (Gabriele Coltorti,
I lombardi contro l’Italia di Napoleone, “Quaderni
Padani” 99-100, San Marino, Il Cerchio 2012) ho mostrato come la rivoluzione scoppiata
a Milano il 20 aprile 1814 causò il crollo del regime napoleonico nella città del Duomo portando al
governo dello Stato – sia pure per breve tempo (dal 20 aprile al 25 maggio
1814) – una classe politica di nobili e notabili lombardi determinati ad ottenere l’indipendenza di un regno limitato a una parte della Padania
centro-occidentale. Le soluzioni dei rivoluzionari erano tuttavia assai diverse
tra loro. Tale Stato poteva ricondursi al vecchio principato regionale
visconteo-sforzesco comprendente la Lombardia ma esteso al Novarese,
all’Alessandrino e al Genovesato (soluzione caldeggiata dalla nobiltà milanese
più tradizionalista) oppure poteva consistere in uno Stato padano-italico
esteso alla Lombardia e al Novarese, ma anche ai territori cispadani di Parma, Piacenza,
Modena, Reggio e alle Romagne (posizione sostenuta dal ceto medio della
burocrazia, dalla borghesia e dalla nobiltà tiepidamente liberale). E’ peraltro
significativo che la classe politica napoleonica, contro la quale fu compiuta
la rivoluzione, puntasse in fondo ad obiettivi simili sul piano territoriale:
le istruzioni rilasciate dai funzionari napoleonici agli ufficiali in missione
all’estero insistevano sull’indipendenza di uno Stato cisalpino limitato alla
Lombardia, al Novarese, ai territori ex estensi di Modena e Reggio e alle ex
legazioni romagnole di Ferrara, Bologna e Ravenna. In tali documenti non si
parlava affatto di Italia unita; neppure di rivendicazioni estese al Veneto
e al Friuli, ormai acquisiti dagli austriaci in via definitiva.
Perché le cose non funzionarono? Il
governo napoleonico chiedeva uno Stato indipendente governato dal principe
Eugenio Beauharnais, il figliastro di Napoleone che da nove anni aveva governato
il regno italico per conto del patrigno. Una frangia considerevole di
rivoluzionari aspirava invece ad uno Stato governato da un principe che non
fosse riconducibile in alcun modo ai napoleonidi, tale era l’odio che i
lombardi nutrivano verso il regime di Bonaparte. Questa diversità di vedute fu
radicale, foriera di uno scontro autenticamente politico (laddove “politico” è
qui inteso nel significato schmittiano di “opposizione radicale tra fazioni, lotta
all’ultimo sangue”): quando scoppiò a Milano il tumulto popolare, per tre
giorni (20-21-23 aprile) ebbe luogo una guerra civile nel corso della quale la
fazione dei funzionari napoleonici fedeli al viceré fu travolta dalla ferocia
dei rivoluzionari. La violenza di tale scontro, ma soprattutto l’assenza di un
gioco di squadra tra le fazioni furono decisivi nel portare al fallimento dei
progetti indipendentisti.
|
20 aprile 1814: il palazzo del ministro Prina saccheggiato dai milanesi. |
Qualcuno potrebbe chiedersi quale
importanza potesse avere a quel tempo il Regno d’Italia napoleonico governato
da Napoleone e dal viceré Eugenio Beauharnais. Milano in quegli anni era capitale
di uno Stato che, quantunque soggetto al dominio francese, si estendeva a una
parte significativa della valle padana, comprendendo il Novarese, la Lombardia,
il Modenese e il Reggiano, le Romagne, il Veneto, il Trentino, il Friuli e le
Marche. In fondo Napoleone, il despota Napoleone accusato di aver saccheggiato
i territori conquistati drenando risorse e traendo carne da macello per i suoi
eserciti con lo strumento della coscrizione obbligatoria, aveva contribuito in
modo non trascurabile al risveglio delle nazioni oppresse. Ai polacchi - il cui
territorio, fagocitato da Russia, Prussia e Austria, era scomparso alla fine
del Settecento dalla carta geopolitica dell’Europa - aveva garantito uno Stato,
il granducato di Varsavia, che, quantunque limitato nella sua stessa estensione
rispetto all’antico regno di Polonia, costituiva un esempio tangibile di Stato
nazionale basato su principi opposti rispetto a quelli seguiti dalla fredda
diplomazia delle cancellerie settecentesche.
Nella penisola italiana la
repubblica cisalpina - divenuta repubblica italiana e, dal 1805, regno d’Italia
– costituiva un altro esempio di Stato poggiante su basi “nazionali”. Questo
regno costituì in effetti per tanti patrioti il primo passo verso
l’unificazione della penisola. Eppure, a ben vedere, nella sua fondazione era
possibile riconoscere il tentativo, compiuto da Napoleone, di riesumare l’antico
regno italico di origine longobarda che, a partire dalla metà del VII secolo
per arrivare sino al X-XI secolo, si era esteso a larga parte della pianura
padano veneta e della Toscana. Faceva eccezione la città di Venezia, antico
dominio di origine bizantina, che i longobardi non riuscirono mai a piegare.
Nel 774 il regno italico longobardo venne conquistato dai franchi di Carlo Magno,
i quali – in linea con le consuetudini medievali – conservarono il diritto e le
strutture istituzionali fissate dai longobardi; difatti Carlo Magno – come i
suoi successori - non governò il regno italico-longobardo come re dei franchi,
bensì come re d’Italia: l’Italia longobarda, presto divenuta “Lombardia”,
estesa a larga parte della Padania. La cerimonia dell’incoronazione mediante l’impiego
della corona ferrea rivestiva una funzione di legittimazione presso il popolo lombardo.
Nonostante la frammentazione politica cui andò soggetto il regno italico di
origine longobarda nei secoli del Basso Medioevo – il che portò , com’è fin
troppo noto, alla formazione degli Stati cittadini e delle Signorie feudali -
la cerimonia dell’incoronazione continuò ad essere tenuta nella basilica
milanese di Sant’Ambrogio fino al XVI secolo segnando una continuità con la
tradizione medievale.
Ora, tornando al regno d’Italia
napoleonico, varrà la pena ricordare che negli anni della sua massima
estensione politica (1810-1813) esso occupava una parte considerevole della valle
padana fino ad includere le Marche ex pontificie. Diverso il caso di territori
quali l’Umbria, la Toscana, il Lazio e la parte restante della Padania occidentale
(l’ex ducato di Parma e Piacenza, la Liguria e quasi tutto il Piemonte),
annessi all’Impero francese e amministrati con prefetti nominati da Parigi. Nel
Sud Italia Napoleone aveva lasciato intatto quel che restava del Regno di
Napoli, riconoscendo l’irriducibile diversità di quelle terre rispetto alla
parte centro-settentrionale della penisola. Affidò il governo del Mezzogiorno continentale
al fratello Giuseppe Bonaparte e, dal 1808, al cognato Gioacchino Murat.
Al Nord il Regno d’Italia con
capitale Milano non riprendeva del tutto i confini dell’antico Regnum Italiae longobardo ma non è azzardato ritenere che Napoleone
intendesse richiamare idealmente la tradizione storica dell’antico regno medievale.
Basti pensare all’incoronazione di Bonaparte a re d’Italia avvenuta nel Duomo
di Milano il 26 maggio 1805: ecco comparire di nuovo la corona ferrea, scelta non
casuale perché segnava una certa continuità con la tradizione del Regnum Italiae longobardo. Non
diversamente dai polacchi, Napoleone aveva quindi dato ai lombardo-italici un
piccolo Stato nazionale in cui potessero riconoscersi, guardandosi tuttavia
dall’unire la Padania sotto un solo regime politico istituzionale.
La storiografia risorgimentale
ritiene che Bonaparte abbia ostacolato la formazione di uno Stato nazionale esteso
dalle Alpi alla Sicilia perché lo giudicava una minaccia per gli interessi
francesi. Io penso che, più verosimilmente, egli ritenesse naturale la
divisione secolare della penisola. Occorreva ai suoi occhi semplificare la carte geopolitica, riducendo il numero degli Stati senza mettere in discussione le storiche fratture esistenti tra le tre Italie: l'Italia padano-italica di origine longobarda; l'Italia romano-fiorentina radicata nell'eredità classica che le avevano lasciato il Rinascimento e il Papato romano; il Regno di Napoli depositario della grande tradizione sveva che ne aveva fatto un Reame poggiante su un peculiare senso di nazionalità venuto a delinearsi sotto la monarchia angioina, aragonese, ma soprattutto nei secoli del vicereame spagnolo e del governo borbonico.
Nella valle padana il Regno d’Italia napoleonico costituì il tentativo di costituire una nazione lombardo-italica in ideale
continuità con l’antico Regnum Italiae
Langobardorum. Questo non significa
che mancassero a Milano patrioti sensibili al tema dell’unità della penisola. Basti
ricordare, per fare alcuni esempi, alle poesie di Ugo Foscolo oppure ai progetti
editoriali finanziati dal governo: indicativi in proposito i volumi degli Scrittori classici italiani di economia
politica (1803-1816) diretti dal giacobino Pietro Custodi ove erano raccolte
le opere di famosi economisti italiani vissuti in ogni parte d’Italia. Pensiamo ancora ai patrioti napoletani che operarono a Milano durante la repubblica e il regno d'Italia e fornirono un contributo importante al rinnovamento culturale della città: Vincenzo Cuoco, Francesco Lomonaco, Francesco Saverio Salfi per citarne solo alcuni. L'ideale di uno Stato nazionale italiano esteso a tutta la penisola, sulla cui formazione i patrioti meridionali esuli a Milano ebbero un ruolo importante, rimase tuttavia limitato a una ristretta minoranza della classe dirigente italica.
Tornando alla rivoluzione del 20
aprile 1814, il dato significativo è che a Milano – capitale, come si è accennato,
di un vasto Stato padano - quasi tutti lavorassero
concretamente per l’indipendenza. Perfino i funzionari italici più fedeli al
viceré Beauharnais, chiedevano un regno sottratto al dominio francese. Erano
persone come il cancelliere guardasigilli e duca di Lodi Francesco Melzi
d’Eril, il ministro delle finanze Giuseppe Prina, il ministro dell’interno
Luigi Vaccari: tutti uniti nel chiedere l’indipendenza di un regno limitato a
una parte della valle padana e governato dal principe Eugenio.
Questo partito, il partito della “cabala”
come era definito sprezzantemente dai nobili municipalisti avversi al regime
napoleonico, era nettamente minoritario a Milano. Per certi versi fu un
peccato: si trattava infatti dell’unico movimento in grado di sostenere la battaglia
per l’indipendenza al congresso di Parigi. In quel fatidico aprile del 1814, il
viceré resisteva valorosamente con il suo esercito contro gli austriaci
dilagati in Veneto fino al Mincio. Il 16 aprile a Schiarino Rizzino, un
castello non molto distante da Mantova, il Beauharnais aveva firmato con
l’Austria un armistizio in base al quale gli veniva riconosciuto il diritto di
inviare a Parigi una deputazione per sostenere i suoi diritti sul trono di
Milano. Tale missione fu affidata ai generali Achille
Fontanelli e Antonio Bertoletti, i quali partirono subito per la Francia. Il
senato del regno italico, un collegio rappresentativo con poteri
prevalentemente consultivi, scelse di inviare due deputati tiepidamente
filonapoleonici come Luigi Castiglioni e Diego Guicciardi, i quali tuttavia non poterono
raggiungere la capitale francese per lo scoppio della rivoluzione. Se la
deputazione avesse avuto i poteri necessari per operare a Parigi per conto del vicerè, non sarebbe stato
difficile ottenere il riconoscimento del Beauharnais come re d’Italia al posto di
Napoleone, ormai esiliato all’isola d’Elba. Egli godeva infatti della
potente amicizia dello zar Alessandro I. Era inoltre legato da un vincolo
familiare al re di Baviera Massimiliano I di Wittelsbach avendone sposato la
figlia Amalia Augusta. Gli eventi assunsero una piega diversa. Il partito della “cabala”, quantunque fosse in grado
di riscuotere alcuni consensi nell’Europa delle corti, era oggetto di un odio feroce
da parte della popolazione lombarda che il 20 aprile non esitò a insorgere
facendo la rivoluzione.
Duramente provati dall’elevata
tassazione che Napoleone aveva imposto al regno per finanziare le guerre
francesi, sconvolti dalla morte di tanti giovani sui campi di Russia e di Germania
che avevano militato valorosamente nella Grande
Armée, i rivoluzionari lombardi volevano la fine del regime napoleonico. Quanti
avevano aiutato il despota francese a sfruttare il popolo prestando servizio in
posti di responsabilità nella burocrazia (ministri e direttori generali) furono
cacciati. Ad essere colpiti furono principalmente i ministri del governo e non
pochi funzionari della pubblica amministrazione. Nel mio lavoro ho dimostrato che
gli impiegati pubblici modenesi e reggiani furono i più odiati dai lombardi per
la loro fedeltà al regime napoleonico. La reazione colpì tuttavia quasi tutti i funzionari
che erano stati ligi a Napoleone, anche quanti potevano vantare origini
lombarde, venete o addirittura novaresi come il ministro delle finanze Giuseppe
Prina: la feroce uccisione di questo funzionario, linciato dalla folla milanese
con i puntali delle ombrelle, è descritta nel libro in modo approfondito sulla
base di alcuni documenti risalenti a quell’epoca.
La stragrande maggioranza dei rivoluzionari
lombardi si divideva sostanzialmente nei due partiti che si sono accennati
all’inizio. Il primo raccoglieva i “cisalpini”: uomini appartenenti al ceto
medio burocratico, alla borghesia lombarda del commercio e dell’artigianato, i
quali chiedevano l’indipendenza di uno Stato esteso a larga parte della valle
padana centro-occidentale. Come il partito dei funzionari fedeli al
Beauharnais, essi aspiravano quindi a uno Stato padano italico. Diversamente
dagli uomini del cessato governo italico, questi lombardi chiedevano tuttavia che
il regno fosse governato da un sovrano non appartenente alla dinastia
napoleonica. Erano disposti a sostenere la candidatura di un principe di casa
d’Austria il cui potere fosse limitato da una Costituzione disegnata sul
modello inglese o sulla falsariga di una Costituzione moderata ispirata alla
Carta francese del 1791. Varrà la pena ricordare tra gli esponenti più
importanti di questo movimento il cremonese Gaetano Pietro Cadolino, il comasco
Ludovico Giovio.
Il secondo partito era formato
invece dalla nobiltà lombarda più tradizionalista, la quale aveva colto nel
crollo del regime napoleonico una straordinaria opportunità per rifondare uno
Stato assai vicino all’antico principato regionale visconteo-sforzesco ad
egemonia patrizia: lo Stato che si era venuto formando nei secoli della
dominazione spagnola e nei primi cinquant’anni del XVIII secolo, nel primo
periodo della dominazione austriaca. Questa nobiltà (Luigi Carlo Rasini,
Alfonso Castiglioni, Giacomo Mellerio) chiedeva un regno indipendente limitato
all’incirca all’attuale regione Lombardia, alla Liguria, all’alto e basso
novarese, a una parte dell’alessandrino: un territorio quest’ultimo che si
rendeva necessario per congiungere il Genovesato con il Milanese. Aspiravano anch’essi
a un regno governato da un principe di casa d’Austria, ma era importante che
l’assetto costituzionale del potere riprendesse i peculiari moduli di governo della società d’ancien régime: la gestione
dell’amministrazione pubblica doveva essere esercitata in una sorta di regime a
mezzadria tra la burocrazia professionale del monarca e la nobiltà locale. Tale
partito era ben presente in seno al governo provvisorio succeduto a quello
napoleonico.
Occorre inoltre ricordare che, tra
quanti parteciparono alla rivoluzione, c’era una piccola frangia di patrioti
italiani i quali, a voler prendere in esame le loro rivendicazioni sul piano
geopolitico, possono considerarsi gli antenati degli attuali paladini
dell’Unità d’Italia. Erano uomini assai vicini alla massoneria e alle prime
sette carbonare, i quali si battevano per un regno esteso a gran parte della
penisola, governato dal re di Napoli Gioacchino Murat.
Quando i rivoluzionari lombardi conquistarono
il governo dello Stato in seguito alla rivolta popolare del 20 aprile fu inviata
al congresso delle potenze alleate una nuova deputazione in sostituzione di
quella napoleonica per ottenere il riconoscimento di uno Stato indipendente in una
parte più o meno estesa della Padania centro-occidentale. Tali piani furono
destinati al fallimento: il viceré Eugenio, amareggiato per l’odio che i
lombardi nutrivano nei suoi confronti, sconvolto per la feroce uccisione del
ministro Prina, firmò un trattato con l’Austria (capitolazione di Mantova: 23
aprile 1814) con il quale cedeva all’Impero asburgico quel che restava del
regno italico nonché le stesse piazzeforti che ancora resistevano valorosamente
al nemico. Gli austriaci si videro consegnare su un piatto d’argento quel che
restava del regno italico, senza colpo ferire. Con tale atto di diritto
internazionale il viceré non solo rinunciò ai suoi piani per succedere a
Napoleone come re d’Italia; compromise gli stessi programmi dei rivoluzionari,
i quali non poterono più contare su un esercito “nazionale” con cui far valere
materialmente l’indipendenza dei territori lombardi. Come scrisse da Parigi il
patrizio milanese Federico Confalonieri alla moglie Teresa Casati, “noi siam
venduti”.
TITOLO: I Lombardi contro l’Italia di Napoleone. La battaglia perduta per uno
Stato indipendente in Padania AUTORE:
Gabriele Coltorti; EDITORE: San Marino: Il Cerchio, 2012; PAGINE: 112