domenica 4 novembre 2012

Il dovere di non disperdere una civiltà

"Noi diciamo di esser civili, e ci offende chi dicesse che non lo siamo. Vediamo di capire un po' meglio che cosa vuol dire civiltà, che cosa vuol dire esser civili.
Anzitutto, non vuol dire forse che partiamo tutti da una certa educazione? E da cosa siamo stati educati? Siamo stati educati da chi ci ha preceduto: da chi ha innalzato le case, coltivato i campi, varato le navi, pensato e scritto ed inventato tutto quello che si chiama civiltà moderna. Di tutto questo siamo stati chiamati a godere, nel momento stesso in cui nascevamo.

Ma di tutto questo non si gode senza rischi. Chi sta in piedi su di un grande passato, chi  h a  q u a l c o s a, ha più doveri di chi nasce senza nulla. Ma nessuno nasce senza nulla, in un paese civile: perché in una società civile c'è un dovere di assistenza che s'estende a tutti, e dev'esserci un minimo di educazione per tutti.
La civiltà è dunque come un grande patrimonio collettivo, che non ci fa ricchi di sostanze, ma ci deve far ricchi almeno di  c a p a c i t à, e ci impone dei doveri. La civiltà è madre di libertà".

ETTORE PASSERIN D'ENTREVES, Come nascono le libertà democratiche, Rai, Radio Televisione Italiana, Torino, ILTE 1956, pag.5.

Queste parole, pronunciate dallo storico Ettore Passerin d'Entrèves nel corso delle trasmissioni Rai tenute negli anni Cinquanta del secolo scorso, sono valide ancor oggi, a più di cinquant'anni di distanza. Sono valide ancor più oggi, in una congiuntura che sembra mettere a dura prova non solo l'economia del nostro Paese, ma il Paese nel suo complesso. Costituiscono una riflessione sul concetto di civiltà ma, a ben vedere, esse sono un ammonimento a non disperdere, a non dilapidare i valori di libertà e democrazia, quel prezioso bagaglio di conquiste nei più svariati campi del sapere che quanti ci hanno preceduto hanno lasciato in eredità alla nostra generazione e a quelle che seguiranno.

E' un dovere che incombe su noi italiani nel nostro piccolo ma ancor più sulla classe dirigente e sulla classe politica che ci governerà nei prossimi anni. Ma tale dovere incomberà in maggior misura su quanti saranno chiamati a decidere le sorti dell'Europa. Le elezioni che si terranno in Germania nel settembre del prossimo anno saranno decisive a tal proposito. In gioco non è soltanto la civiltà italiana, ma la civiltà europea con quel complesso di valori, di istituzioni, di stili di vita, di mentalità che l'hanno resa grande nel corso dei secoli prima che i nazionalismi ne minassero le fondamenta.

domenica 17 giugno 2012

L'anomalia italiana: quando il buongoverno non si concilia con la democrazia



Michele Salvati, in un articolo apparso sulla rivista “Il Mulino” (anno LXI, 1/12, n.459, pp.22-32), si è chiesto per quale motivo l’Italia, in larga parte della storia repubblicana, non abbia avuto governi responsabili, in grado di realizzare politiche lungimiranti. Perché in Italia non c’è stato il buongoverno? In realtà - sostiene Salvati - il buongoverno c’è stato. Il guaio è che la sua durata è stata breve. Si è verificato quasi sempre in circostanze eccezionali.

Nel dopoguerra, durante la stagione del centrismo (dal 1948 al 1963), il Paese fu governato da una classe politica autorevole, responsabile, alla quale dobbiamo la messa a punto di quelle riforme che portarono al poderoso boom economico dell’Italia padana e dell’Italia centrale negli anni Sessanta del secolo scorso. Meno significativo, come noto, lo sviluppo economico nel Mezzogiorno. Ma, a parte la lunga stagione del centrismo, altre belle pagine non si vedono. Bisogna attendere – fa notare Salvati - la seconda Repubblica, in particolar modo i pochi anni che intercorsero tra la formazione del primo governo Amato (1992) e la fine del primo governo Prodi (1998) per vedere qualcosa che somigli al buongoverno; sei anni nel corso dei quali il Paese, reduce da una crisi finanziaria che aveva messo a repentaglio la tenuta del sistema politico-costituzionale, poté contare su governi in grado di condurre politiche impopolari pur di scongiurare la bancarotta dello Stato. In circostanze eccezionali, essi ebbero il merito di tenere sotto controllo la spesa e il debito pubblico salvando l’Italia da un default le cui conseguenze sarebbero state imprevedibili.  

La tesi centrale del saggio di Salvati risiede nella constatazione che l’Italia, messa a confronto con le altre democrazie europee, presenta una vistosa anomalia caratterizzata dalla non coincidenza tra democrazia e buongoverno. “La mia tesi è che quel contrasto (tra democrazia e buongoverno) è stato mediamente più forte, e ha dato luogo a un governo peggiore, in Italia rispetto ad altri Paesi con i quali è ragionevole confrontarci in questo dopoguerra: Regno Unito, Francia, Germania, Spagna post-franchista”.
Una tesi difficile da confutare. Difatti, se prendiamo in esame le condizioni della penisola italiana nella seconda parte della “Prima Repubblica” (1963-1992) e nella seconda parte della “Seconda Repubblica” (1998-2011) - sembra che quei governi furono incapaci di adottare politiche lungimiranti e questo nonostante fossero composti da partiti che riscuotevano il consenso di larga parte dell’elettorato. Non è un caso se l’immane debito pubblico italiano fu cumulato nei periodi di malgoverno che si sono appena accennati. Certo, ci troviamo di fronte a due sistemi politici diversi ma entrambi furono in qualche modo responsabili.

A mio parere, se prendiamo in esame la storia repubblicana, ci accorgiamo che i punti deboli del nostro vivere in comunità sono sostanzialmente due: la scarsa fiducia dei cittadini nelle istituzioni politiche, considerate estranee quando non rechino vantaggio ai loro interessi particolari; l’assenza di una cultura di governo in larga parte della classe politica. Questo ha prodotto esecutivi irresponsabili, poco autorevoli e per nulla stabili. Nella “Prima Repubblica” ci sono stati cinquanta governi in 47 anni - dal 1946 al 1993 con una media di quasi 1 governo all’anno - con una legge elettorale proporzionale in regime politico parlamentare. Nella “Seconda Repubblica” - che per comodità facciamo durare fino al 2011 includendo il governo Monti - gli esecutivi sono stati dieci in soli 17 anni con una media ancor più bassa rispetto alla precedente. In questo secondo caso, la forma di governo parlamentare è stata regolata da due leggi elettorali (il Mattarellum dal 1993 al 2005, il Porcellum dal 2006 ad oggi) che hanno tentato di risolvere il problema della governabilità: la prima con la prevalenza di un sistema a collegi uninominali sul modello inglese, la seconda con un sistema proporzionale corretto dal premio di maggioranza alla coalizione vincente. Secondo Salvati tali leggi non sono bastate a scongiurare l’instabilità del sistema politico. Gli esecutivi hanno continuato a traballare anche in questi anni, posti perennemente sotto il ricatto dei parlamentari i quali, nel sistema vigente, rivestono il monopolio della legislazione nazionale. Solo in un caso l’esecutivo ha potuto operare per quasi l’intero arco della legislatura: il secondo governo Berlusconi (2001-2005) che per Salvati non può essere considerato esempio di buongoverno. La realtà è che nella “Seconda Repubblica”, quantunque le leggi elettorali abbiano consentito di eleggere direttamente il presidente del consiglio, il buongoverno non è stato assicurato.

Oggi, esattamente come vent’anni fa, siamo alle prese con un governo “tecnico” il cui mandato dovrebbe consistere nel realizzare le riforme che nessun partito ha avuto il coraggio di fare. Salvati ha ragione nel sostenere che in Italia il buon governo non è coinciso quasi mai con la politica democratica. A mio giudizio il problema risiede nel tipo di Stato che ci ha governato finora. Lo Stato nazionale unitario - per il modo in cui si è formato, per la sua stessa costituzione interna - ci ha impedito di identificarci totalmente in un ordinamento saldamente ancorato alle radici della storia preunitaria della penisola. Non ci ha consentito di essere cittadini sensibili al bene comune. Il problema non investe solo la classe politica. Riguarda le classi dirigenti e i cittadini: le une e gli altri più sensibili all’interesse corporativo ed individuale che a quello generale.
Questa situazione è dovuta al fatto che lo Stato viene s e n t i t o  dai cittadini come qualcosa di imposto, di artificiale, di innaturale.

Se non risolveremo questo problema con una serie di riforme coraggiose tese a ridisegnare nel suo complesso l’ordinamento costituzionale, il Paese finirà nei prossimi anni per essere dilaniato dalle sue interne contraddizioni. 

venerdì 1 giugno 2012

20 aprile 1814: la rivoluzione dei lombardi per uno Stato indipendente nella valle padana



La crisi politica ed economica in cui versa l’Unione Europea sembra rafforzare i movimenti nazionalisti ed indipendentisti che si stanno formando un po’ ovunque nel Vecchio Continente. In Italia i movimenti orientati a promuovere l’indipendenza delle piccole patrie sono divisi nei programmi e nelle idealità. Gli indipendentisti veneti vorrebbero uno Stato veneto, altri invece aspirano a costituire uno Stato padano formato dall’unione delle regioni del Nord Italia. Beppe Grillo, che di tutto può essere accusato fuorché di nazionalismo, sembra voler proporre ai suoi elettori l’uscita dello Stato italiano dall’Unione monetaria. I partiti nazionalisti si spingono addirittura sino a chiedere l’uscita dell’Italia dall’Unione europea.

Nel constatare l’eterogeneità di tali posizioni, il mio pensiero corre ai giorni convulsi dell’aprile 1814 quando, in una crisi europea seguita alla dissoluzione del dominio napoleonico, i lombardi furono protagonisti di un moto rivoluzionario che assunse una notevole importanza nel panorama delle rivolte antifrancesi. Anche in quei frangenti le posizioni dei partiti in cui si articolava l’opinione pubblica a Milano erano assai diverse, inconciliabili fra loro perché nemiche irriducibili sul piano politico.

Nel mio libro (Gabriele Coltorti, I lombardi contro l’Italia di Napoleone, “Quaderni Padani” 99-100, San Marino, Il Cerchio 2012) ho mostrato come la rivoluzione scoppiata a Milano il 20 aprile 1814 causò il crollo del regime napoleonico nella città del Duomo portando al governo dello Stato – sia pure per breve tempo (dal 20 aprile al 25 maggio 1814) – una classe politica di nobili e notabili lombardi determinati ad ottenere l’indipendenza di un regno limitato a una parte della Padania centro-occidentale. Le soluzioni dei rivoluzionari erano tuttavia assai diverse tra loro. Tale Stato poteva ricondursi al vecchio principato regionale visconteo-sforzesco comprendente la Lombardia ma esteso al Novarese, all’Alessandrino e al Genovesato (soluzione caldeggiata dalla nobiltà milanese più tradizionalista) oppure poteva consistere in uno Stato padano-italico esteso alla Lombardia e al Novarese, ma anche ai territori cispadani di Parma, Piacenza, Modena, Reggio e alle Romagne (posizione sostenuta dal ceto medio della burocrazia, dalla borghesia e dalla nobiltà tiepidamente liberale). E’ peraltro significativo che la classe politica napoleonica, contro la quale fu compiuta la rivoluzione, puntasse in fondo ad obiettivi simili sul piano territoriale: le istruzioni rilasciate dai funzionari napoleonici agli ufficiali in missione all’estero insistevano sull’indipendenza di uno Stato cisalpino limitato alla Lombardia, al Novarese, ai territori ex estensi di Modena e Reggio e alle ex legazioni romagnole di Ferrara, Bologna e Ravenna. In tali documenti non si parlava affatto di Italia unita; neppure di rivendicazioni estese al Veneto e al Friuli, ormai acquisiti dagli austriaci in via definitiva.

Perché le cose non funzionarono? Il governo napoleonico chiedeva uno Stato indipendente governato dal principe Eugenio Beauharnais, il figliastro di Napoleone che da nove anni aveva governato il regno italico per conto del patrigno. Una frangia considerevole di rivoluzionari aspirava invece ad uno Stato governato da un principe che non fosse riconducibile in alcun modo ai napoleonidi, tale era l’odio che i lombardi nutrivano verso il regime di Bonaparte. Questa diversità di vedute fu radicale, foriera di uno scontro autenticamente politico (laddove “politico” è qui inteso nel significato schmittiano di “opposizione radicale tra fazioni, lotta all’ultimo sangue”): quando scoppiò a Milano il tumulto popolare, per tre giorni (20-21-23 aprile) ebbe luogo una guerra civile nel corso della quale la fazione dei funzionari napoleonici fedeli al viceré fu travolta dalla ferocia dei rivoluzionari. La violenza di tale scontro, ma soprattutto l’assenza di un gioco di squadra tra le fazioni furono decisivi nel portare al fallimento dei progetti indipendentisti.



20 aprile 1814: il palazzo del ministro Prina saccheggiato dai milanesi.


Qualcuno potrebbe chiedersi quale importanza potesse avere a quel tempo il Regno d’Italia napoleonico governato da Napoleone e dal viceré Eugenio Beauharnais. Milano in quegli anni era capitale di uno Stato che, quantunque soggetto al dominio francese, si estendeva a una parte significativa della valle padana, comprendendo il Novarese, la Lombardia, il Modenese e il Reggiano, le Romagne, il Veneto, il Trentino, il Friuli e le Marche. In fondo Napoleone, il despota Napoleone accusato di aver saccheggiato i territori conquistati drenando risorse e traendo carne da macello per i suoi eserciti con lo strumento della coscrizione obbligatoria, aveva contribuito in modo non trascurabile al risveglio delle nazioni oppresse. Ai polacchi - il cui territorio, fagocitato da Russia, Prussia e Austria, era scomparso alla fine del Settecento dalla carta geopolitica dell’Europa - aveva garantito uno Stato, il granducato di Varsavia, che, quantunque limitato nella sua stessa estensione rispetto all’antico regno di Polonia, costituiva un esempio tangibile di Stato nazionale basato su principi opposti rispetto a quelli seguiti dalla fredda diplomazia delle cancellerie settecentesche.

Nella penisola italiana la repubblica cisalpina - divenuta repubblica italiana e, dal 1805, regno d’Italia – costituiva un altro esempio di Stato poggiante su basi “nazionali”. Questo regno costituì in effetti per tanti patrioti il primo passo verso l’unificazione della penisola. Eppure, a ben vedere, nella sua fondazione era possibile riconoscere il tentativo, compiuto da Napoleone, di riesumare l’antico regno italico di origine longobarda che, a partire dalla metà del VII secolo per arrivare sino al X-XI secolo, si era esteso a larga parte della pianura padano veneta e della Toscana. Faceva eccezione la città di Venezia, antico dominio di origine bizantina, che i longobardi non riuscirono mai a piegare. Nel 774 il regno italico longobardo venne conquistato dai franchi di Carlo Magno, i quali – in linea con le consuetudini medievali – conservarono il diritto e le strutture istituzionali fissate dai longobardi; difatti Carlo Magno – come i suoi successori - non governò il regno italico-longobardo come re dei franchi, bensì come re d’Italia: l’Italia longobarda, presto divenuta “Lombardia”, estesa a larga parte della Padania. La cerimonia dell’incoronazione mediante l’impiego della corona ferrea rivestiva una funzione di legittimazione presso il popolo lombardo. Nonostante la frammentazione politica cui andò soggetto il regno italico di origine longobarda nei secoli del Basso Medioevo – il che portò , com’è fin troppo noto, alla formazione degli Stati cittadini e delle Signorie feudali - la cerimonia dell’incoronazione continuò ad essere tenuta nella basilica milanese di Sant’Ambrogio fino al XVI secolo segnando una continuità con la tradizione medievale.

Ora, tornando al regno d’Italia napoleonico, varrà la pena ricordare che negli anni della sua massima estensione politica (1810-1813) esso occupava una parte considerevole della valle padana fino ad includere le Marche ex pontificie. Diverso il caso di territori quali l’Umbria, la Toscana, il Lazio e la parte restante della Padania occidentale (l’ex ducato di Parma e Piacenza, la Liguria e quasi tutto il Piemonte), annessi all’Impero francese e amministrati con prefetti nominati da Parigi. Nel Sud Italia Napoleone aveva lasciato intatto quel che restava del Regno di Napoli, riconoscendo l’irriducibile diversità di quelle terre rispetto alla parte centro-settentrionale della penisola. Affidò il governo del Mezzogiorno continentale al fratello Giuseppe Bonaparte e, dal 1808, al cognato Gioacchino Murat.  

Al Nord il Regno d’Italia con capitale Milano non riprendeva del tutto i confini dell’antico Regnum Italiae longobardo ma non è azzardato ritenere che Napoleone intendesse richiamare idealmente la tradizione storica dell’antico regno medievale. Basti pensare all’incoronazione di Bonaparte a re d’Italia avvenuta nel Duomo di Milano il 26 maggio 1805: ecco comparire di nuovo la corona ferrea, scelta non casuale perché segnava una certa continuità con la tradizione del Regnum Italiae longobardo. Non diversamente dai polacchi, Napoleone aveva quindi dato ai lombardo-italici un piccolo Stato nazionale in cui potessero riconoscersi, guardandosi tuttavia dall’unire la Padania sotto un solo regime politico istituzionale.

La storiografia risorgimentale ritiene che Bonaparte abbia ostacolato la formazione di uno Stato nazionale esteso dalle Alpi alla Sicilia perché lo giudicava una minaccia per gli interessi francesi. Io penso che, più verosimilmente, egli ritenesse naturale la divisione secolare della penisola. Occorreva ai suoi occhi semplificare la carte geopolitica, riducendo il numero degli Stati senza mettere in discussione le storiche fratture esistenti tra le tre Italie: l'Italia padano-italica di origine longobarda; l'Italia romano-fiorentina  radicata nell'eredità classica che le avevano lasciato il Rinascimento e il Papato romano; il Regno di Napoli depositario della grande tradizione sveva che ne aveva fatto un Reame poggiante su un peculiare senso di nazionalità venuto a delinearsi sotto la monarchia angioina, aragonese, ma soprattutto nei secoli del vicereame spagnolo e del governo borbonico.

Nella valle padana il Regno d’Italia napoleonico costituì il tentativo di costituire una nazione lombardo-italica in ideale continuità con l’antico Regnum Italiae Langobardorum. Questo non significa che mancassero a Milano patrioti sensibili al tema dell’unità della penisola. Basti ricordare, per fare alcuni esempi, alle poesie di Ugo Foscolo oppure ai progetti editoriali finanziati dal governo: indicativi in proposito i volumi degli Scrittori classici italiani di economia politica (1803-1816) diretti dal giacobino Pietro Custodi ove erano raccolte le opere di famosi economisti italiani vissuti in ogni parte d’Italia. Pensiamo ancora ai patrioti napoletani che operarono a Milano durante la repubblica e il regno d'Italia e fornirono un contributo importante al rinnovamento culturale della città: Vincenzo Cuoco, Francesco Lomonaco, Francesco Saverio Salfi per citarne solo alcuni. L'ideale di uno Stato nazionale italiano esteso a tutta la penisola, sulla cui formazione i patrioti meridionali esuli a Milano ebbero un ruolo importante, rimase tuttavia limitato a una ristretta minoranza  della classe dirigente italica.







Tornando alla rivoluzione del 20 aprile 1814, il dato significativo è che a Milano – capitale, come si è accennato, di un vasto Stato padano -  quasi tutti lavorassero concretamente per l’indipendenza. Perfino i funzionari italici più fedeli al viceré Beauharnais, chiedevano un regno sottratto al dominio francese. Erano persone come il cancelliere guardasigilli e duca di Lodi Francesco Melzi d’Eril, il ministro delle finanze Giuseppe Prina, il ministro dell’interno Luigi Vaccari: tutti uniti nel chiedere l’indipendenza di un regno limitato a una parte della valle padana e governato dal principe Eugenio.

Questo partito, il partito della “cabala” come era definito sprezzantemente dai nobili municipalisti avversi al regime napoleonico, era nettamente minoritario a Milano. Per certi versi fu un peccato: si trattava infatti dell’unico movimento in grado di sostenere la battaglia per l’indipendenza al congresso di Parigi. In quel fatidico aprile del 1814, il viceré resisteva valorosamente con il suo esercito contro gli austriaci dilagati in Veneto fino al Mincio. Il 16 aprile a Schiarino Rizzino, un castello non molto distante da Mantova, il Beauharnais aveva firmato con l’Austria un armistizio in base al quale gli veniva riconosciuto il diritto di inviare a Parigi una deputazione per sostenere i suoi diritti sul trono di Milano. Tale missione fu affidata ai generali Achille Fontanelli e Antonio Bertoletti, i quali partirono subito per la Francia. Il senato del regno italico, un collegio rappresentativo con poteri prevalentemente consultivi, scelse di inviare due deputati tiepidamente filonapoleonici come Luigi Castiglioni e Diego Guicciardi, i quali tuttavia non poterono raggiungere la capitale francese per lo scoppio della rivoluzione. Se la deputazione avesse avuto i poteri necessari per operare a Parigi per conto del vicerè, non sarebbe stato difficile ottenere il riconoscimento del Beauharnais come re d’Italia al posto di Napoleone, ormai esiliato all’isola d’Elba. Egli godeva infatti della potente amicizia dello zar Alessandro I. Era inoltre legato da un vincolo familiare al re di Baviera Massimiliano I di Wittelsbach avendone sposato la figlia Amalia Augusta. Gli eventi assunsero una piega diversa. Il partito della “cabala”, quantunque fosse in grado di riscuotere alcuni consensi nell’Europa delle corti, era oggetto di un odio feroce da parte della popolazione lombarda che il 20 aprile non esitò a insorgere facendo la rivoluzione.    

Duramente provati dall’elevata tassazione che Napoleone aveva imposto al regno per finanziare le guerre francesi, sconvolti dalla morte di tanti giovani sui campi di Russia e di Germania che avevano militato valorosamente nella Grande Armée, i rivoluzionari lombardi volevano la fine del regime napoleonico. Quanti avevano aiutato il despota francese a sfruttare il popolo prestando servizio in posti di responsabilità nella burocrazia (ministri e direttori generali) furono cacciati. Ad essere colpiti furono principalmente i ministri del governo e non pochi funzionari della pubblica amministrazione. Nel mio lavoro ho dimostrato che gli impiegati pubblici modenesi e reggiani furono i più odiati dai lombardi per la loro fedeltà al regime napoleonico. La reazione colpì tuttavia quasi tutti i funzionari che erano stati ligi a Napoleone, anche quanti potevano vantare origini lombarde, venete o addirittura novaresi come il ministro delle finanze Giuseppe Prina: la feroce uccisione di questo funzionario, linciato dalla folla milanese con i puntali delle ombrelle, è descritta nel libro in modo approfondito sulla base di alcuni documenti risalenti a quell’epoca.






La stragrande maggioranza dei rivoluzionari lombardi si divideva sostanzialmente nei due partiti che si sono accennati all’inizio. Il primo raccoglieva i “cisalpini”: uomini appartenenti al ceto medio burocratico, alla borghesia lombarda del commercio e dell’artigianato, i quali chiedevano l’indipendenza di uno Stato esteso a larga parte della valle padana centro-occidentale. Come il partito dei funzionari fedeli al Beauharnais, essi aspiravano quindi a uno Stato padano italico. Diversamente dagli uomini del cessato governo italico, questi lombardi chiedevano tuttavia che il regno fosse governato da un sovrano non appartenente alla dinastia napoleonica. Erano disposti a sostenere la candidatura di un principe di casa d’Austria il cui potere fosse limitato da una Costituzione disegnata sul modello inglese o sulla falsariga di una Costituzione moderata ispirata alla Carta francese del 1791. Varrà la pena ricordare tra gli esponenti più importanti di questo movimento il cremonese Gaetano Pietro Cadolino, il comasco Ludovico Giovio.

Il secondo partito era formato invece dalla nobiltà lombarda più tradizionalista, la quale aveva colto nel crollo del regime napoleonico una straordinaria opportunità per rifondare uno Stato assai vicino all’antico principato regionale visconteo-sforzesco ad egemonia patrizia: lo Stato che si era venuto formando nei secoli della dominazione spagnola e nei primi cinquant’anni del XVIII secolo, nel primo periodo della dominazione austriaca. Questa nobiltà (Luigi Carlo Rasini, Alfonso Castiglioni, Giacomo Mellerio) chiedeva un regno indipendente limitato all’incirca all’attuale regione Lombardia, alla Liguria, all’alto e basso novarese, a una parte dell’alessandrino: un territorio quest’ultimo che si rendeva necessario per congiungere il Genovesato con il Milanese. Aspiravano anch’essi a un regno governato da un principe di casa d’Austria, ma era importante che l’assetto costituzionale del potere riprendesse  i peculiari moduli di governo della società d’ancien régime: la gestione dell’amministrazione pubblica doveva essere esercitata in una sorta di regime a mezzadria tra la burocrazia professionale del monarca e la nobiltà locale. Tale partito era ben presente in seno al governo provvisorio succeduto a quello napoleonico.

Occorre inoltre ricordare che, tra quanti parteciparono alla rivoluzione, c’era una piccola frangia di patrioti italiani i quali, a voler prendere in esame le loro rivendicazioni sul piano geopolitico, possono considerarsi gli antenati degli attuali paladini dell’Unità d’Italia. Erano uomini assai vicini alla massoneria e alle prime sette carbonare, i quali si battevano per un regno esteso a gran parte della penisola, governato dal re di Napoli Gioacchino Murat.

Quando i rivoluzionari lombardi conquistarono il governo dello Stato in seguito alla rivolta popolare del 20 aprile fu inviata al congresso delle potenze alleate una nuova deputazione in sostituzione di quella napoleonica per ottenere il riconoscimento di uno Stato indipendente in una parte più o meno estesa della Padania centro-occidentale. Tali piani furono destinati al fallimento: il viceré Eugenio, amareggiato per l’odio che i lombardi nutrivano nei suoi confronti, sconvolto per la feroce uccisione del ministro Prina, firmò un trattato con l’Austria (capitolazione di Mantova: 23 aprile 1814) con il quale cedeva all’Impero asburgico quel che restava del regno italico nonché le stesse piazzeforti che ancora resistevano valorosamente al nemico. Gli austriaci si videro consegnare su un piatto d’argento quel che restava del regno italico, senza colpo ferire. Con tale atto di diritto internazionale il viceré non solo rinunciò ai suoi piani per succedere a Napoleone come re d’Italia; compromise gli stessi programmi dei rivoluzionari, i quali non poterono più contare su un esercito “nazionale” con cui far valere materialmente l’indipendenza dei territori lombardi. Come scrisse da Parigi il patrizio milanese Federico Confalonieri alla moglie Teresa Casati, “noi siam venduti”.

TITOLO: I Lombardi contro l’Italia di Napoleone. La battaglia perduta per uno Stato indipendente in Padania AUTORE:  Gabriele Coltorti; EDITORE: San Marino: Il Cerchio, 2012; PAGINE: 112

venerdì 27 aprile 2012

Angela Von Merkelnich e il rischio di un nuovo '48 europeo

Pochi giorni fa il cancelliere Angela Merkel ha sostenuto, in polemica con il candidato all'Eliseo Holland, che il patto fiscale Ue 25 non e' negoziabile.

La Germania sembra terribilmente l'Impero austriaco uscito dal Congresso di Vienna del 1814-1815. Nella prima meta' dell'Ottocento gli austriaci ostacolarono qualsiasi cambiamento della situazione geopolitica europea e ci volle la rivoluzione parigina del 1830, l'indipendenza del Belgio, il '48 scoppiato in tutta Europa per mostrare i limiti di una politica conservatrice.

Oggi i panni dell'Impero austriaco sembrano essere assunti dai tedeschi
che paiono recitare molto bene la parte dei gendarmi di un'Europa burocratica e divisa; essi mostrano con i fatti di ostacolare l'unione politica europea: si veda a tal proposito la ferma, ostinata, inflessibile opposizione della Germania all'emissione degli Euro-Bond per far fronte alla crisi dei debiti sovrani.

Insomma, vorremmo sbagliarci ma sembra che per il cancelliere Angela Von Merkelnich l'Europa debba restare un'espressione geografica, un continente la cui economia sia dipendente e subordinata agli interessi geo-politici della Germania.

Urge una vera riforma federale non solo in Italia, ma ancor più in Europa. Altrimenti, tanto vale che ciascun Paese torni alla sua moneta.

O l'Europa si costruisce su basi autenticamente federali con la partecipazione delle popolazioni alle decisioni politiche oppure l'Europa si sfaldera' in modo piu' o meno pacifico.

giovedì 12 aprile 2012

I due capponi chiamati a fare pulizia nella stalla Lega

Il Senatùr, Calderoli e Maroni si ergono a giustizieri, a vendicatori dei militanti leghisti umiliati e offesi dalle male azioni del Cerchio Magico. E' lecito nutrire qualche dubbio sulla serietà delle loro intenzioni. I primi due, agendo di concerto con altri figuri più o meno famosi, da tempo sono stati decisivi nel rendere la Lega una porcilaia. Maroni sembra essere l'unica persona credibile ma pesa sul suo conto un inquietante interrogativo. Ci chiediamo come sia riuscito in questi anni a trovarsi a suo agio in mezzo alla sporcizia che ora promette di spazzare via.

Il numero uno della Lega, il principale responsabile di ogni azione politica ed economica del movimento, Umberto Bossi, è ancora lì. Nessuno ha avuto il coraggio di toccarlo. Si è dimesso - è vero - ma i vertici (che dipendono da lui e dai suoi sodali) lo hanno subito nominato Presidente del partito. Maroni e i suoi sostengono la tesi che il Senatùr sia stato raggirato da un pugno di disonesti senza scrupoli. Il guaio è che i disonesti sono stati piazzati in Lega dall'Umberto, il quale ha sempre agito con la sua ristretta équipe di fedelissimi e fedelissime (cerchisti e non cerchisti). E' una storia - questa del povero Bossi raggirato e preso in giro dai furbi - che può reggere per i militanti affezionati alla storia del Senatùr, per gli attivisti resi ciechi dalla fede nei poteri salvifici del Capo o - a dir meglio - di quel che resta del Capo. L'elettorato leghista e filo-leghista (che costituisce forse il 70% dei voti pro-Lega) difficilmente crederà a questa favoletta.

La verità - come sempre in politica - è assai più rude e semplice. Senza l'intervento della Magistratura, Maroni e Calderoli non si sarebbero mai sognati di fare i purificatori. Se gli scandali del partito non li avessero costretti a mascherarsi da moschettieri del re Umberto "puro e incorruttibile", sarebbero ancora lì a razzolare nell'aia beccandosi come i capponi di Renzo.

mercoledì 4 aprile 2012

Il destino della Lega? Affondata in un Belsito...


Le indagini della magistratura a carico dell'ex tesoriere della Lega Francesco Belsito, accusato di appropriazione indebita, truffa ai danni dello Stato, riciclaggio di denaro sembrano portare alla luce un sistema spaventoso di malversazione ai danni della collettività. Attenderemo il processo e la sentenza della magistratura per capire le responsabilità di ciascuna persona in questa squallida vicenda.

Ha ragione Matteo Salvini a denunciare l'intervento ad orologeria della Magistratura. Ma non è colpa di nessuno se il suo partito è al centro da settimane di indagini su presunti giri di tangenti e malversazioni. Se la Lega fosse un partito gestito con onestà e trasparenza, se i politici della Lega fossero onesti e trasparenti, i magistrati non sarebbero costretti ad occuparsi di loro.

Montanelli diceva: "gli italiani hanno lo stomaco forte: digeriscono tutto". Un giudizio non proprio calzante per l'elettorato leghista, da sempre accusato di essere poco sensibile all'italianità. Vedremo alle prossime elezioni come reagiranno i militanti leghisti e i cittadini dell'area pedemontana che hanno votato per anni il Carroccio. Continueranno a turarsi il naso dinanzi al puzzo nauseante che esala da via Bellerio o faranno affondare un partito che serve ai Bossi per sistemare i loro famigli more italico

In effetti fa rabbrividire l'accusa che una parte dei fondi pubblici destinati all'attività del partito sarebbe stata impiegata da Belsito per le spese personali di Rosy Mauro e della famiglia Bossi, come d'altra parte non cessano di stupire (in negativo) le rivelazioni di Luigi Lusi, ex tesoriere della Margherita, in merito alla discutibile gestione finanziaria di quel partito. I leader politici pensano di cavarsela scaricando le colpe sui tesorieri. Non è un comportamento corretto. Abbiano la dignità di dimettersi, ammettano di essere responsabili nella gestione clamorosamente superficiale del partito, riconoscano il loro peso nella nomina di determinati figuri ai vertici del movimento.

E' inutile che Bossi faccia finta di cascare dal pero. Se fosse un uomo politico responsabile, si sarebbe dimesso. Questo tuttavia non avverrà perché dietro il Senatùr c'è il codazzo dei familiari (in senso stretto e allargato) che non solo gli devono la carriera, ma soprattutto - come avviene per tutti i partiti incistati nel sistema - sono titolari - grazie alla Lega - delle rendite politiche nei vari posti dell'amministrazione centrale e locale. Senza Bossi dove andrebbero i tanti aiutanti che si nascondono dietro la sua persona ormai provata dalla malattia? Da almeno un decennio la Lega si è trasformata cambiando la sua natura: da partito del Nord a Roma è diventata un partito romano radicato al Nord.  

 E' innegabile che la vicenda Belsito non mancherà di pesare sull'elettorato della Lega alle prossime elezioni. Il Carroccio potrebbe subire un drastico calo di consensi. Non si può escludere neppure che il partito di Bossi finisca per implodere.   

Occorre tuttavia rilevare che la battaglia per l'autonomia delle Regioni padane, per una riforma radicale dello Stato italiano in senso autenticamente federale, è ben lungi dall'essere destinata al fallimento. Nel Nord Italia e nel Centro Italia la crisi economica sembra rafforzare i movimenti indipendentisti che, presenti ormai da tempo sul territorio, paiono destinati ad ereditare - sia pure in parte - il bacino elettorale intercettato dal Carroccio. Sono movimenti che si rifanno al programma originario della Lega, quel programma che Gianfranco Miglio aveva mirabilmente condensato nel decalogo di Assago (1993). Per questa ragione le elezioni amministrative potrebbero riservare nuove sorprese, soprattutto nell'Italia padana.

venerdì 16 marzo 2012

Riforma del lavoro: che intenzioni ha il governo Monti?

L'economia italiana e' costituita per il 90% da piccole e medie imprese; l'Italia appartiene al gruppo dei paesi più sviluppati, come Francia e Germania. 


Diversamente da Francia e Germania, abbiamo salari molto bassi e contratti che si vorrebbero far somigliare sempre piu' a quelli dei paesi in via di sviluppo. Cosa fa il governo? Anziché ridisegnare i contratti di lavoro tutelando la dignità dei lavoratori come avviene in Francia e Germania, intende modificare l'art.18 mettendo a repentaglio uno dei pilastri su cui poggia il diritto del lavoro. Bel modo di garantire il futuro ai giovani!

Non condivido la difesa del contratto nazionale da parte dei sindacati, essendo necessario a mio giudizio che il lavoro venga affrontato in un quadro federale con contratti rapportati al diverso costo della vita nelle aree metropolitane e nei territori dell'Italia padana, centrale e meridionale.

Sulla difesa del'art.18 sono pero' d'accordo con la CGIL.

martedì 17 gennaio 2012

I fondamenti del vero federalismo secondo Gianfranco Miglio


Questo articolo è uscito sul quotidiano online L'Indipendenza

Quali sono per Gianfranco Miglio i fondamenti di un vero regime federale? Nell’introduzione al volume Federalismi falsi e degenerati (Milano, Sperling&Kupfer 1997), Miglio elencava con grande chiarezza i pilastri su cui deve poggiare un regime fondato su un patto costituzionale in grado di salvaguardare e conciliare l’irriducibile diversità dei territori. Le vere Costituzioni federali sono quelle in cui:
“a) il federalismo è interno al sistema politico e ne costituisce l’asse portante”.
In tutti i sedicenti sistemi “federali” (Germania, Stati Uniti) o quasi “federali” è la prima Camera a rivestire un ruolo politico decisivo nella legislazione e – nei regimi parlamentari – a controllare il governo dandogli o togliendogli la fiducia. La Camera dei rappresentanti statunitense, il Bundestag tedesco sono collegi in cui dominano i grandi partiti “nazionali”, in cui i parlamentari sono eletti direttamente dal “popolo sovrano”. Quelli per Miglio erano falsi sistemi federali perché il federalismo tende ad essere confinato in una seconda camera (Bundesrat in Germania, Senato negli Stati Uniti) che ha uno scarso potere di controllo nei confronti del governo centrale. Se il federalismo deve essere l’asse portante del sistema, questo significa che per Miglio la Camera politica, quella in grado di controllare il governo federale deve essere l’assemblea in cui siedono i rappresentanti delle maggiori Comunità territoriali in cui si articola la Federazione. Nel modello costituzionale di Miglio l’Assemblea federale sarebbe formata dalla riunione periodica delle Diete (Parlamenti) delle tre Repubbliche i cui membri verrebbero eletti dalle rispettive popolazioni: 100 deputati dalla Padania, 100 dal Centro Italia, 100 dal Mezzogiorno. A questi 300 deputati si aggiungono i delegati dei Consigli delle 5 Regioni a Statuto speciale: 15 deputati siciliani, 10 sardi, 10 friulani, 6 dal Trentino Alto Adige/Sud Tirolo, 5 dalla Valle d’Aosta. In tutto 346 deputati con un taglio di 284 parlamentari rispetto ai 630 del nostro ordinamento.


“b) i poteri di governo e amministrazione sono distribuiti (e costituzionalmente garantiti) su almeno due livelli territoriali: Cantoni e Federazione.
La netta separazione di funzioni tra potere centrale e poteri locali era basilare per Miglio. Questo non accade nei falsi federalismi che si sono accennati. Ad esempio la Costituzione tedesca, quantunque stabilisca una separazione di funzioni tra Bund e Länder, non è stata in grado di evitare il netto prevalere dello Stato centrale nella legislazione e – in diversi casi – nella stessa amministrazione, un intervento reso necessario in Germania per assicurare su tutto il territorio i livelli di prestazioni pubbliche dello Stato sociale. Ma lo Stato sociale, scriveva Miglio, “è un sottoprodotto dello Stato unitario e centralizzato di grandi dimensioni” perchè legato a governi che dispongono di ingenti risorse finanziarie. “La falsa idea di trovarsi davanti ‘un corno dell’abbondanza’ di cui non si vede mai la fine, è infatti il fondamento delle politiche di scambio di favori e privilegi, contro sicurezza elettorale e permanenza della classe politica al potere”.
In Germania la revisione costituzionale del 1969 ha fissato i Gemeinschaftsaufgaben, i compiti comuni che, soprattutto in materia finanziaria, hanno finito per amputare l’autonomia dei territori facendo saltare l’originaria coerenza dell’ordinamento tedesco basato sulla divisione di competenze tra Bund e Länder. Una realtà ben presente a Miglio che scriveva: “Se l’equilibrio fra gli almeno due livelli di potere non è solidamente garantito – anche e soprattutto nei confronti degli Stati o Cantoni -  è fatale che chi detiene il potere centrale (federale) tenda ad allargarlo fino ad assorbire le prerogative dell’altro livello o a ridurlo a un significato puramente formale. Così deperiscono (e muoiono) le Costituzioni federali. Il maggior problema tecnico di queste ultime è rappresentato dalla necessità di stabilire espedienti i quali rendano molto difficile ai cittadini degli Stati o Cantoni di rinunciare alle loro prerogative. Perciò il miglior presidio di un ordinamento federale sta nella determinazione con cui il popolo è deciso a resistere contro le intimidazioni e, soprattutto, le suasioni dell’autorità centrale” (Federalismi falsi e degenerati, pp.XIV-XV).


“c) I Cantoni hanno dimensioni tali da poter assolvere la parte principale dell’attività governamentale, resistendo altresì all’eventuale potere di assorbimento dell’autorità federale”.
Le tre macroregioni (Nord, Centro, Sud) fissate dal professore nel Decalogo di Assago presentato nel dicembre 1993 sono individuate in base a criteri etno-linguistici, geo-economici e soprattutto funzionali. Miglio era convinto che non si potesse costruire un vero ordinamento federale partendo dalle venti Regioni attuali. Nel Modello di Costituzione federale per gli italiani scriveva: “Se si creasse una Federazione fra le 20 attuali Regioni, alcune di queste (le più grandi e forti) prenderebbero il volo, e controbilancerebbero validamente l’autorità federale; mentre le più piccole e più deboli, incapaci di assolvere i compiti loro attribuiti, si getterebbero tra le braccia proprio dei poteri federali. Il risultato finale sarebbe quello di una Repubblica squilibrata e dilacerata, e di una restaurazione a furor di popolo del governo centralizzato”. Previsione a un passo dal verificarsi se si pensa alle riforme costituzionali elaborate dal centro-destra (Lega Nord inclusa) e dal centro-sinistra.
“d) Tutte le regole che disciplinano il funzionamento del sistema sono ispirate al principio del contratto (negoziato) e della maggioranza qualificata”.
Il principio della maggioranza semplice, in una repubblica federale in cui vivono popolazioni diverse per storia, costumi, tradizioni, è una violenza intollerabile perché attenta i diritti delle minoranze. Nel volume Federalismo e Secessione (Milano, Mondadori 1997, pp.118-122) il professore rivolgeva una critica radicale al principio di maggioranza: “Cosa ha di più saggio la metà più uno degli uomini? Come si può accettare un criterio tanto rozzo, fondato in definitiva su quell’uno, cioé su di un numero talvolta piccolissimo, in una divisione del mondo nella quale da una parte vi è la metà, che soccombe, e dall’altra la metà più uno che vince? Quell’uno finisce per diventare l’arbitro, il signore della Comunità”. Il principio del contratto, tipico del diritto privato - in base al quale i territori decidono su un piano di parità, sforzandosi di convincere le controparti per raggiungere una mediazione che possa garantire le ragioni di ciascuno - è cosa ben diversa dalla legge o dal regolamento approvato a maggioranza semplice. Ogni atto giuridico dovrebbe essere il prodotto di un negoziato tra le parti. Questo spiega per quale motivo, nel modello di costituzione federale redatto da Miglio il governo è non solo direttoriale -  composto dai governatori delle maggiori Comunità in cui si compone la Federazione - ma esercita le sue funzioni secondo la regola della maggioranza qualificata. “Stabilirei come regola generale la maggioranza dei due terzi e, nel caso in cui non si raggiunga, richiederei il sorteggio. Si presuppone che una scelta condivisa da una larga maggioranza sia ‘più vera’ di quella condivisa soltanto da una minoranza, perché se riduciamo la minoranza ad un terzo o ad un quarto è evidente che esiste una qualche giustificazione al fatto che l’opinione dei pochi, eventualmente dei pochissimi, sia messa da parte” (Federalismo e Secessione, pag122). Il professore proponeva addirittura che il Direttorio federale approvasse all’unanimità materie cruciali quali l’introduzione di nuovi tributi a livello federale, il sostegno economico alle aree svantaggiatate, la legge di bilancio. Il ridotto numero dei membri che compongono il Direttorio (nel suo progetto non più di cinque o sei persone) renderebbe assai facile il raggiungimento dell’accordo in tempi certi e ridotti. Il professore aveva infatti abbozzato una regola d’oro che nel suo modello era in grado di garantire la governabilità: egli lasciava al Direttorio federale otto giorni di tempo per approvare un provvedimento, un Regolamento o un Decreto oggetto di controversie, al termine dei quali sarebbe scattata la “procedura di emergenza”: se entro una settimana il governo non fosse pervenuto a una decisione, i membri sarebbero decaduti dall’incarico e non avrebbero potuto ripresentarsi agli elettori per due legislature. “La minaccia efficace di togliere ai politici la poltrona su cui siedono - diceva nel presentare il suo modello - è un ottimo strumento per farli andare d’accordo nell’interesse del Paese!”.
“e) La Costituzione contiene procedure che rendano sempre certa e rapida la decisione degli affari di governo: per esempio la presenza di un Presidente coordinatore del Direttorio, eletto da tutti i cittadini della Federazione”.

Qui Miglio mostrava di accettare il presidenzialismo: pensava a un Presidente federale eletto direttamente dai cittadini, erede in parte delle funzioni esercitate oggi dal Capo dello Stato e dal Presidente del Consiglio. Il Presidente federale avrebbe nominato i ministri, che per entrare in carica avrebbero dovuto godere della fiducia del Direttorio. Un Presidente federale “ingabbiato” nel Direttorio. E’ precisamente quest’ultimo il vero e unico governo della Confederazione: composto, oltre che dal Presidente federale, dai Governatori dei tre Cantoni (eletti direttamente dalle rispettive popolazioni) e da un Presidente (a turno annuale) di Regione a Statuto Speciale.
“f) La struttura fiscale, coordinata dal Direttorio federale, poggia su due livelli: municipale e cantonale”. Come si vede, un principio completamente estraneo al “federalismo fiscale” italiano, che assegna allo Stato centrale la completa gestione delle imposte (dirette e indirette).

domenica 15 gennaio 2012

Le tre Repubbliche di Miglio


Questo articolo è uscito sul quotidiano online L'Indipendenza.

Il modello di Costituzione federale elaborato da Gianfranco Miglio prevede una riscrittura della Costituzione che riguarderebbe non solo la seconda parte, ma anche numerosi articoli contenuti nella prima parte e nei principi fondamentali. La stragrande maggioranza dei costituzionalisti ritiene che i primi articoli della Costituzione italiana siano intoccabili. Il professore comasco non era per nulla d’accordo: ho ascoltato tempo fa la registrazione di un’intervista del 1994 in cui sosteneva che la Carta del ’48 era rivoltabile come un calzino. A suo giudizio, l’unico articolo che non poteva essere modificato era il 139, ove è scritto esplicitamente che “la forma repubblicana non può essere oggetto di revisione costituzionale”. Naturale quindi che per Miglio fosse del tutto insensata una riforma limitata alla seconda parte della Carta, come invece ci propongono tutti i partiti italiani, dal centrodestra al centrosinistra compreso il Presidente della Repubblica. No, direbbe oggi il professore: “Le vere Costituzioni federali o sono tali o non lo sono”.
Ma veniamo al modello costituzionale elaborato da Miglio. Presentato al Congresso della Lega Lombarda tenuto Assago nel 1993, venne perfezionato e parzialmente modificato nelle pubblicazioni apparse negli anni successivi: il Modello di Costituzione federale per gli italiani uscito nel 1995, la prima edizione dell’Asino di Buridano (1999) e la seconda edizione del 2000.


I Principi fondamentali della Costituzione federale proposta da Miglio

Quali sarebbero i Principi fondamentali su cui dovrebbe poggiare la Repubblica federale italiana? Come andrebbe modificato ad esempio l’articolo quinto che oggi sancisce l’unità e l’indivisibilità dello Stato unitario?
Nell’Asino di Buridano il professore dava un’indicazione precisa:
“1. L’Italia è una Repubblica, radicata nei Municipi, e fondata su di un patto di unione fra le comunità naturali in cui i cittadini si articolano. La Repubblica è formata da quindici Regioni, raggruppate in tre Comunità regionali – Nord, Centro e Sud – e dalle cinque Regioni a Statuto Speciale, che hanno dignità di Comunità regionale, e possono adottare, nel loro Statuto, le istituzioni e le procedure previste per le Comunità regionali.
2. Il potere di decidere – sul piano legislativo, governamentale ed amministrativo – appartiene al popolo, il quale lo esercita o per mezzo dei suoi rappresentanti oppure direttamente (referendum). Una legge costituzionale definisce le forme di referendum, i “quorum” necessari, e le procedure che ne regolano lo svolgimento nelle diverse aree della Repubblica.
3. La Costituzione riconosce e garantisce i diritti individuali dell’uomo e stabilisce i doveri del cittadino. Nessun vincolo è posto alla circolazione ed all’attività dei cittadini sul territorio della Repubblica: tale libertà può essere limitata solo per motivi penali. La Costituzione garantisce le quattro fondamentali libertà europee: circolazione delle persone, dei capitali, delle merci e dei servizi. La libertà d’impresa è un diritto costituzionale”. (L’Asino di Buridano, Vicenza, Neri Pozza, 1999, pp.79-80).


Le tre Italie

I soggetti del patto federale coincidono in larga parte con le patrie etno-linguistiche o addirittura – è il caso del Sud Italia -  con antichi Stati preunitari. Nei progetti pubblicati nel corso degli anni cambiano i nomi delle comunità territoriali in cui dovrebbe articolarsi la Confederazione italiana: Repubbliche nel 1993, Cantoni nel 1995, Comunità regionali – come si è appena visto - nel 1999 e 2000. L’impianto del modello resta in larga parte immutato.
La Comunità regionale del Nord coincide con la Padania (Liguria, Piemonte, Lombardia, Veneto, Emilia Romagna) ove sono parlate le lingue padane gallo-italiche e venete; la Comunità regionale del Centro corrisponde in gran parte all’area ove sono parlate le lingue dell’italiano centrale o mediano (Marche, Umbria, Lazio e Toscana); la Comunità regionale del Sud Italia (Abruzzo, Molise, Puglia, Campania, Basilicata, Calabria) coincide con l’antico Regno di Napoli, territorio in cui sono parlate le lingue italiane meridionali.
Le cinque Regioni a Statuto speciale (Sicilia, Sardegna, Valle d’Aosta, Trentino Alto Adige/Sud Tirol, Friuli Venezia Giulia) vengono riconosciute nella loro peculiare identità, rese completamente autonome come avverrebbe per le tre Comunità regionali: istituzioni pienamente responsabili in materia di tassazione e imposte, non più dipendenti dai trasferimenti dello Stato centrale.
Miglio scriveva nel Modello di Costituzione federale per gli italiani (1995):
“Comunque si rigirino le cose, i Cantoni della Federazione devono essere formati dalle quindici Regioni a statuto ordinario, che già vengono abitualmente raggruppate a fini statistici e geo-economici (ma anche dal linguaggio quotidiano) - in tre aree: la Valle padana (Liguria, Piemonte, Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna), l’Italia centrale (Toscana, Umbria, Lazio, Marche) e l’Italia meridionale (Abruzzo, Molise, Puglia, Campania, Basilicata, Calabria), unificate ciascuna da una innegabile omogeneità storico culturale”.

Le Regioni e i Municipi
Le Regioni non spariscono nel modello di Miglio. Il governo di ciascuna Repubblica (o Cantone o Comunità regionale a seconda delle varie fonti) è direttoriale: composto da un Governatore, eletto dai cittadini, e dai Presidenti delle Regioni comprese entro ciascuna Repubblica italiana. Scriveva nel Modello:
“Le Regioni non scompaiono affatto: perché il Cantone è in fondo, alle sue origini, un ‘consorzio di Regioni’ e il Cantone governa e amministra per mezzo delle Regioni i cui vertici costituiscono il governo del Cantone stesso. Ognuna delle quindici Regioni a Statuto ordinario potrà darsi la struttura interna e la legge elettorale che i suoi cittadini preferiscono. Però ognuna di esse deve culminare con un Presidente eletto direttamente dal popolo: perché i Presidenti delle Regioni comprese nel Cantone devono formare il Direttorio (governo) del Cantone stesso, guidato da un Governatore, eletto anch’esso da tutti i cittadini”. Le Province, inutili e costose per Miglio, vengono soppresse.


E i Municipi? La loro autonomia sarebbe pienamente riconosciuta in Costituzione, non prima di aver compiuto un accorpamento degli enti più piccoli mediante apposite Federazioni di Comuni composte da 15.000 abitanti:  “La scienza dell’amministrazione colloca a 15.000 il punto critico al di sotto e al di sopra del quale si alterano i valori di efficienza e partecipazione di un Comune” (Federalismo e Secessione, Milano, Sperling&Kupfer 1997, pag.105). Il professore non escludeva inoltre un controllo degli enti superiori nei confronti dell’ente comunale: “Secondo me i Comuni devono avere la possibilità di fissare le tasse, ma ritengo sia necessario porre un limite alla loro disponibilità. Faccio un esempio: supponiamo che, per sfrenata passione calcistica, un Comune stabilisca una inostenibile imposizione fiscale per costruire uno stadio fuori da ogni logica. Se anche la popolazione si dimostrasse entusiasta per il progetto e per un simile sperpero di denaro, questo dovrebbe essere impedito da un controllo cantonale” (Federalismo e Secessione, pag.103).
Il grado d’intervento dei Municipi nell’amministrazione del Cantone e della Confederazione nelle materie della politica ambientale, delle comunicazioni e dell’urbanistica era tuttavia notevole nel suo progetto. I Sindaci avrebbero composto le Consulte municipali. Nell’Asino di Buridano (1999) Miglio descriveva dettagliatamente la composizione e le funzioni delle Consulte municipali:
“Presso ogni Direttorio di Comunità regionale è costituita una Consulta municipale comunitaria formata da 30 Sindaci eletti da tutti i Sindaci della Comunità in ragione di 15 rappresentanti dei Comuni fino a 10.000 abitanti, 10 rappresentanti dei Comuni da 10.000 a 25.000 abitanti, 5 rappresentati dei Comuni con più di 25.000 abitanti.
Presso il Direttorio federale è costituita una Consulta municipale federale formata da 30 Sindaci eletti da tutti i Sindaci della Repubblica in ragione di 20 rappresentanti dei Comuni che abbiano fino a 100.000 abitanti, e 10 rappresentanti dei Comuni che abbiano più di 100.000 abitanti. I Sindaci dei Comuni i quali abbiano più di un milione di abitanti fanno parte di diritto della Consulta municipale federale”.
La procedura con cui le Consulte avrebbero espresso i loro pareri ai diversi livelli di governo (cantonali e federali) lascia trasparire il ruolo incisivo dei Municipi nel modello elaborato dal professore: “Il parere espresso da una Consulta municipale con una maggioranza dei due terzi dei componenti è vincolante per il rispettivo organo di governo presso il quale la Consulta è costituita”.


Gli esiti di una riforma costituzionale ispirata al modello di Gianfranco Miglio

Nel complesso le riforme proposte dal professore nel Modello di Costituzione federale contengono notevoli punti di forza. La nuova Costituzione presenterebbe:
-          una maggiore stabilità istituzionale con un governo di legislatura sciolto dal vincolo di maggioranza (forma di governo non parlamentare);
-          la separazione delle funzioni: chi ricopre cariche pubbliche negli organi rappresentativi (Consiglio comunale, Consiglio regionale, Dieta di una delle tre Repubbliche-Assemblea federale) non potrebbe esercitare funzioni amministrative o di governo (Sindaco, Governatore di Regione, Governatore di una delle tre Repubbliche, Presidente di una delle cinque Regioni a Statuto speciale, Presidente federale, Segretario di Stato): in tal modo si formerebbe nel tempo una classe politica responsabile, non sottoposta ai ricatti di parlamentari desiderosi di diventare ministri o governatori;
-          la separazione della magistratura inquirente dalla magistratura giudicante;



-      referendum propositivo deliberativi con l’attribuzione ai cittadini di un potere d’intervento nella legislazione e nell’amministrazione a tutti i livelli della Confederazione: dal Comune alla Regione, dalle Repubbliche o Cantoni alla Federazione (come in Svizzera).


Il presidenzialismo
Il professore comasco riteneva che il presidenzialismo fosse necessario per garantire stabilità al sistema politico: egli pensava a un Presidente federale eletto dagli italiani a suffragio universale e diretto, un presidente dotato in parte delle funzioni esercitate nel nostro ordinamento dal Presidente del Consiglio e dal Capo dello Stato. Miglio riteneva però indispensabile che il presidenzialismo venisse bilanciato da tre contrappesi: a) un forte federalismo istituzionale presente nella prima Camera (quella politica) e nella stessa composizione del governo; b) una Corte costituzionale modificata nella composizione e rafforzata nel suo ruolo di garante della nuova Costituzione; c) Referendum propositivo deliberativi per consentire ai cittadini di intervenire nelle questioni politiche e amministrative contro l’insorgere del dispotismo dei partiti cui è incline la democrazia puramente rappresentativa (modello svizzero).


L’Assemblea federale
Come si è detto, il Parlamento e il Governo centrale verrebbero composti in base al principio federale. Relativamente al Parlamento, la prima Camera - la sola cui spetterebbe il potere di sfiduciare il governo con una maggioranza dei due terzi  - sarebbe l’Assemblea federale e verrebbe formata dalla riunione periodica delle Diete (Parlamenti) delle tre Repubbliche i cui membri sono eletti dalle rispettive popolazioni: 100 deputati dalla Padania, 100 dal Centro Italia, 100 dal Mezzogiorno. A questi 300 deputati si aggiungono i delegati dei Consigli delle 5 Regioni a Statuto speciale: 15 deputati siciliani, 10 sardi, 10 friulani, 6 dal Trentino Alto Adige/Sud Tirolo, 5 dalla Valle d’Aosta. In tutto 346 deputati con un taglio di 284 parlamentari rispetto ai 630 del nostro ordinamento. Nel progetto del professore gran parte della funzione legislativa e amministrativa passerebbe alle tre Repubbliche e alle cinque Regioni a Statuto speciale. Le poche leggi federali e le ristrette funzioni amministrative lasciate alla Federazione sarebbero il risultato di un autentico compromesso tra i rappresentanti delle grandi aree del Paese che siedono nelle Diete riunite nella già ricordata Assemblea federale. Si otterrebbe in tal modo un considerevole risparmio di risorse, non foss’altro perché – lo ripetiamo - sarebbero gli stessi deputati delle Diete a riunirsi periodicamente per formare l’Assemblea federale: questa sarebbe la sola Camera politica della Confederazione, l’unica in grado di sfiduciare il governo con una maggioranza non inferiore ai due terzi che sia concorde nell’indicare un Presidente federale da opporre a quello sfiduciato (sfiducia costruttiva). La sfiducia del Presidente comporterebbe elezioni anticipate: i cittadini sarebbero chiamati a rinnovare le Diete e ad eleggere il Presidente federale scegliendolo tra la persona sfiduciata e il candidato indicato dall’Assemblea nella mozione di sfiducia.


Il Direttorio federale

Ma il federalismo istituzionale investirebbe anche la composizione del governo centrale: un Direttorio presieduto dal Presidente federale (eletto da tutti gli italiani), formato dai Governatori delle tre Repubbliche (anch’essi eletti dalle rispettive popolazioni) e dal Presidente (a turno annuale) di una delle cinque regioni a Statuto speciale. La nomina dei ministri (che nel modello di Miglio assumono la qualifica di “Segretari di Stato”) spetterebbe al Presidente federale, il quale dovrebbe però sottoporli alla fiducia del Direttorio. In altre parole, il Direttorio federale sarebbe un governo di legislatura destinato a durare in carica quattro anni. Un governo schiettamente federale che, a mio parere, Miglio avrebbe voluto dotare di funzioni non solo amministrative ma anche legislative (nelle poche competenze lasciate alla Confederazione italiana). L’Assemblea federale si riunirebbe periodicamente solo per discutere materie importanti per le quali si ritiene indispensabile una legge quadro federale. In tal modo verrebbe sancito il ruolo fondamentale rivestito dal governo nella legislazione, com’è avvenuto d’altra parte negli ultimi vent’anni con i governi di centro-destra e di centro-sinistra, i quali - nell’attuale ordinamento unitario retto sulla forma di governo parlamentare - hanno abusato dei decreti legge e dei decreti legislativi violando la lettera della Costituzione. Nel modello di Miglio tale scostamento tra Costituzione reale e Costituzione formale verrebbe finalmente a cessare: il governo federale avrebbe tutti gli strumenti per esercitare le funzioni senza degenerare in governo autoritario: ricordiamo che saremmo in un ordinamento federale - non più unitario - in cui i Governatori delle diverse Italie - eletti direttamente dalle rispettive popolazioni - compongono il Direttorio federale.


Il Senato legislativo

Nel progetto di Miglio è prevista una seconda Camera. E’ il “Senato legislativo”: una Camera di alta legislazione in gran parte tecnica, specializzata nella redazione dei progetti di legge riguardanti i Principi fondamentali e la prima parte della Costituzione. In questo modo Miglio riusciva finalmente a separare la funzione legislativa da quella propriamente politica, spettante all’Assemblea federale. Formato da 200 senatori in possesso dei titoli per essere eletti a tale ufficio, il Senato legislativo verrebbe eletto dai cittadini italiani con metodo proporzionale. Sarebbe l’unica Camera ‘unitaria’ della Repubblica, il cui ruolo - in un ordinamento veramente federale come quello delineato nel modello migliano - sarebbe confinato a una funzione meramente tecnica. Difatti l’Assemblea federale, riunendosi periodicamente perché i suoi deputati lavorerebbero nelle Diete delle tre Repubbliche italiane e nei Consigli delle Cinque Regioni a Statuto Speciale, affiderebbe al Senato la redazione di progetti di legge nelle materie di competenza federale, progetti che l’Assemblea, tornata a riunirsi, approverebbe in via definitiva con la possibilità di modificarli. Il Senato legislativo sarebbe l’unico collegio rappresentativo riunito stabilmente a Roma.


La Corte Costituzionale
Il potenziamento della Corte costituzionale era fondamentale per il professore. Nel Modello di Costituzione federale per gli italiani egli proponeva una modifica significativa nella composizione della Consulta: “La Corte dovrebbe essere composta da giudici nominati per un quarto dell’Assemblea federale, per un quarto della Diete e per una metà dalle supreme magistrature ordinarie e amministrative. I membri dovrebbero essere portati a venti [dai quindici attuali]”. Riteneva peraltro importante che fosse istituita una Sezione competente in merito all’amministrazione economica della Repubblica.
Il rafforzamento della Corte si otterrebbe in due modi. Anzitutto affidando al Presidente della Consulta (che durerebbe in carica un anno, sorteggiato tra i venti giudici costituzionali) le funzioni di garanzia esercitate oggi dal Capo dello Stato: val la pena ricordare ad esempio la firma e la promulgazione delle leggi, nonché il potere delicatissimo di sciogliere le Camere. In secondo luogo, la Corte verrebbe rafforzata mediante l’introduzione del Procuratore della Costituzione: un altissimo magistrato nominato dalla Consulta al di fuori di essa, tra i candidati in possesso dei requisiti per essere eletti giudici della Corte costituzionale. Il Procuratore, che durerebbe in carica sette anni, avrebbe il potere di impugnare davanti alla Corte tutte le leggi (federali e territoriali) e regolamenti (federali e territoriali) di dubbia costituzionalità. Giova infine ricordare che, nel modello di Miglio, il Procuratore della Costituzione costituirebbe il vertice della Magistratura inquirente e, nell’adozione dei provvedimenti disciplinari, agirebbe di concerto con una commissione di 8 membri eletta dal Senato legislativo.
Il modello di Costituzione federale presentato da Miglio renderebbe l’Italia una vera Repubblica federale, garantendo al Paese piena governabilità nel rispetto della sovranità dei cittadini, ma anche delle Comunità territoriali esistenti nella penisola.