martedì 24 dicembre 2013

La messa natalizia di mezzanotte nella vecchia Milano

E' assai probabile che non fossero in molti i milanesi dei secoli passati che andavano alla messa di mezzanotte. La funzione religiosa veniva celebrata in poche chiese del centro: il Duomo, San Fedele, l'antica (oggi scomparsa) Santa Maria Segreta.

Nella basilica di Sant'Angelo, un tempo sussidiaria di San Marco nel sestiere di Porta Nuova, venivano addirittura distribuiti bigliettini d'invito per evitare che la chiesa fosse frequentata unicamente da compagnie chiassose di nottambuli, il che la dice lunga sulla scarsa partecipazione dei milanesi alla messa di mezzanotte.

Non dobbiamo pensare tuttavia che si trattasse di scarsa devozione. Occorre tener presente che un tempo gli edifici di culto non venivano riscaldati. Risultava quindi difficile ai milanesi uscire di casa per assistere  alla messa immersi nel freddo. I membri delle classi abbienti entravano in chiesa ben coperti da cappotti o pellicce. I meno fortunati assistevano probabilmente alla celebrazione con lo stesso spirito di chi, entrato in un frigidaire, non vede l'ora di uscirne per tornarsene al calduccio in casa propria.

C'erano poi le allegre brigate di amici che, terminata la messa di mezzanotte, si recavano dal Nava in via Bocchetto o dal Bouthou in contrada dei Due Muri (via oggi scomparsa, si trovava pressappoco tra via Mengoni e piazza del Duomo): erano alcuni dei pochi locali che restavano aperti fino a notte fonda. I fedeli, usciti dalle chiese intirizziti dal freddo, non esitavano ad entrare in queste botteghe per ordinare cioccolate calde o quella che è passata alla storia con il nome di "barbaiada": una bevanda fatta con caffé e cacao che l'impresario teatrale Domenico Barbaja, giunto a Milano nel 1826 dopo aver lavorato per un certo tempo a Napoli, aveva contribuito a far conoscere ai milanesi.

Più complessa la situazione nelle famiglie più ricche. Se le padrone assistevano alla messa di mezzanotte, le domestiche eran costrette a rinunciarvi, impegnate com'erano nella preparazione del pranzo natalizio. La servitù si accontentava della benedizione impartita dai preti. I cuochi preparavano i ravioli fin dal giorno della vigilia, ovviamente sorvegliati dalle padrone di casa che non esitavano a rimproverarli con inviti più o meno cortesi a metterci meno sale, più salsiccia, poco pepe.....

E il panettone? Non si pensi che la sua forma fosse quella di oggi, simile a una sfera o a un cilindro. Il panettone era semisferico e questo spiega molto bene l'origine del complimento che i corteggiatori un po' disinibiti rivolgevano alle signore mentre ammiravano il loro fondoschiena: "Che bel panetton!".

Nella Milano ottocentesca il vero panettone era sfornato dal Baj, un pasticciere il cui negozio si trovava sotto la Madonnina, in piazza del Duomo all'angolo di via Santa Radegonda. I panettoni che avanzavano erano ceduti a poco prezzo ai "fregujatt",  i "venditori di briciole" che provvedevano a rivenderli raffermi nei borghi o alle fiere. Perché non tutti avevano la possibilità di mangiare il panettone fresco, appena sfornato.

Auguro agli affezionati lettori di questo blog un sereno Natale.


giovedì 26 settembre 2013

Un misterioso omicidio nei chiostri della Passione



I nostri giornali son pieni di notizie relative ad omicidi. Il “Foglio” di Giuliano Ferrara, nell’edizione del lunedì, riserva addirittura un’intera colonna ai fatti di cronaca nera, descritti con la stessa cura per il macabro dettaglio che Alfred Hitchcock impiegò nel making del memorabile “Psycho”.

Gli uomini hanno sempre ammazzato per qualche ragione, tolti ovviamente i malati di mente che una ragione presumono di averla ma la capiscono solo loro. 

Nella Milano del Settecento gli omicidi per furto erano probabilmente assai diffusi. Altrimenti stentiamo a capire quale altro movente avesse spinto un chierico, Antonio Didino, ad uccidere un anziano religioso di 86 anni, l’ex abate Felice Fedeli. Un delitto particolarmente efferato che suscitò sconcerto per il luogo in cui avvenne e per lo stato della vittima. 

Teatro dell’omicidio fu una cella del “venerando monastero” di Santa Maria della Passione nel sestiere di Porta Orientale, oggi sede del conservatorio musicale Giuseppe Verdi. In quei chiostri, a partire dalla fine del XV secolo, vivevano i canonici regolari lateranensi di Sant’Agostino, un ordine religioso cui si doveva la costruzione della chiesa e dell’abbazia. 

Veniamo ai fatti. Il 22 maggio 1745 il Fedeli, che era stato abate nel monastero della Passione, venne ucciso nella sua cella con venti coltellate di cui quattro mortali. L’assassino doveva conoscere assai bene la vittima perché, in caso contrario, non sarebbe entrato nella stanza ove compì l'omicidio.


 

Il cronista milanese Giambattista Borrani ci ha lasciato nel suo diario un prezioso resoconto di questa vicenda. Nella Milano del primo Settecento, ancora legata ai valori religiosi della riforma cattolica tridentina, esso aveva destato particolare scalpore:

 
“…nello stesso giorno seguì un caso veramente orribile. Entrò nel Venerando Monastero di Santa Maria della Passione dei Canonici Regolari Lateranensi una persona incognita in abito chericale, chiedendo conto del Reverendissimo Padre Abbate Felice Fedeli, altre volte Abbate di quel Monastero, che era nell’età d’anni 86, doppo d’avergli parlato entrò in sua cella insieme con esso lui; e poi uscì dalla Porta del Monastero mangiando alcuni confetti, dicendo essergli stati donati dal detto Padre Abbate. Ma entrando poi alcuni Religiosi nella Cella lo trovaron morto sul pavimento, medianti 20 ferite con coltello di punta acuta, 4 delle quali mortali. Un tal sacrilego, proditorio, ed atroce omicidio commosse la Città tutta”.

[Diario di Giambattista Borrani, anno 1745, Biblioteca Ambrosiana, Fondo Sussidio n.6]


Partì la caccia all’assassino. Il portinaio del monastero, che aveva visto il misterioso malvivente, aiutò le autorità a perlustrare le vie cittadine. Tali sforzi non furono vani. Ben presto il portinaio riconobbe infatti l’omicida davanti a un negozio nella contrada dei Visconti. Si trattava per l'appunto di Antonio Didino, figlio di un falegname specializzato in sgabelli di legno (i famosi scagn milanesi).

Varrà la pena ricordare che la contrada dei Visconti, scomparsa negli anni Sessanta del XIX secolo in seguito all’ingrandimento di piazza del Duomo, si trovava all’incirca nella zona di piazza Diaz, tra le attuali vie Rastrelli e Baracchini: essa collegava l’antica via Dogana (anch’essa distrutta in seguito al citato ampliamento della piazza) con la contrada del Pesce (oggi via Paolo da Cannobio).

Quando il portinaio riconobbe l’assassino, il gendarme cercò di arrestarlo ma il chierico riuscì a fuggire. Il cronista Borrani ci racconta che il Didino si rifugiò in casa dei familiari, che abitavano nella contrada di Santa Margherita. Stando alla nostra fonte, gli amici e i parenti del chierico, appreso quanto era avvenuto, gli suggerirono di consegnarsi all’autorità vescovile per dimostrare l’infondatezza della accuse. Il Didino seguì il consiglio ma dovette ben presto pentirsi della scelta: in seguito ad alcune contraddizioni contenute nella deposizione al giudice ecclesiastico, posto sotto i tormenti della tortura, fu costretto a confessare il delitto:

Annotava il Borrani il 16 dicembre:

“Si passò poi a fare gli esami e per certe contradizioni nelle risposte si formò sospetto di sua complicità; quindi con evidenti prove convinto, e costretto dai tormenti confessò il delitto, cioè che nel detto giorno 22 maggio rubbò al Padre Abbate Fedeli una Cappa, ed altre cose del valore di filippi 23.10; che fece perquisizione per rubbargli altri denari; e che commise il barbaro omicidio con 20 ferite, repplicandogli due colpi con peggiore sevizia doppo caduto quasi morto sul pavimento”.


Il processo terminò in dicembre: la sentenza stabilì la colpevolezza del Didino che, dopo essere stato privato degli ordini religiosi, veniva consegnato dall'arcivescovo al braccio secolare (vale a dire alle autorità dello Stato di Milano).

Il 16 dicembre arrivò la sentenza del Senato, la suprema magistratura giuridico amministrativa dello Stato. Il Didino fu condannato “ad essere condotto il dì 18 [due giorni dopo quindi] sovra Carro allo Stradone che conduce al Monastero della Passione con tre colpi di tenaglia rovente sulle spalle ed ivi appiccato sovra una Forca più alta della solita”. 

L’instabilità politica seguita al repentino mutamento di regime nello Stato di Milano sembrò tuttavia portare fortuna all’ex chierico. Dal 1740 il ducato di Milano, dominio degli Asburgo di Vienna, era infatti coinvolto nella guerra di successione austriaca: com'è noto, il conflitto scoppiò perché i sovrani di Prussia, Spagna, Francia, Baviera e Sassonia non avevano riconosciuto la successione al trono imperiale della giovane Maria Teresa di Asburgo. 

L'intervento dell’Inghilterra, la progressiva divisione degli avversari, l’alleanza con il re di Sardegna Carlo Emanuele III e l’aiuto dei fedeli sudditi della “nazione ungherese” furono però decisivi nel salvare i domini di casa d’Austria da una disgregazione che sembrava inevitabile. Maria Teresa ne uscì vittoriosa: la giovane imperatrice firmò la pace di Aquisgrana il 18 novembre 1748 ma dovette rinunciare alla ricca regione della Slesia, passata definitivamente alla Prussia di Federico II. Inoltre il ducato di Milano, che aveva già subito rilevanti amputazioni a vantaggio del Piemonte, fu ulteriormente ridotto in seguito alla cessione a Carlo Emanuele III dell’Alto Novarese, di Vigevano e del territorio di Voghera. 

Negli anni della guerra Milano venne conquistata dalle truppe nemiche. L’esercito gallo ispano entrò in città il 16 dicembre 1745, nello stesso giorno in cui il Senato pubblicava la citata sentenza di condanna capitale nei confronti del Didino. Per circa tre mesi, dalla fine di dicembre alla metà di marzo del 1746, la città del Duomo fu quindi governata dal re di Spagna Filippo V di Borbone. 

Tornando all’omicidio avvenuto nei chiostri della Passione, il nuovo Sovrano era intenzionato a confermare la condanna capitale ma una ristretta cerchia di persone, animate da sentimenti di filantropia, chiese alle autorità  di salvare la vita al condannato. Spiccava in questo gruppo la nobildonna Clelia Borromeo, che dimostrò di avere a cuore la difesa dei diritti umani anticipando di quasi vent’anni i celebri illuministi milanesi Cesare Beccaria e Pietro Verri. 

Il re di Spagna, nonostante fosse personalmente favorevole alla pena di morte, accolse l’appello della Borromeo, che godeva di enorme credito a Milano. Non sarà fuori luogo ricordare in proposito che il suo salotto culturale, l'Academia Cloelia Vigilantium, frequentato da illustri studiosi di fama europea, contribuì grandemente al progresso delle scienze e delle lettere.

La sentenza capitale fu quindi abolita e la condanna fu tramutata  in carcere a vita.

Scriveva il Borrani:

Nel detto giorno 18 [dicembre], in cui doveva eseguirsi la giustizia col detto chierico Didino, considerando l’Eccellentissimo Senato che la condanna era seguita nella mattina del giorno 16 sotto il governo della nostra sovrana Maria Teresa, e che essendo qui giunte nel dopo pranso dello stesso giorno le Truppe della Spagna, non potevasi eseguire la sentenza senza l’approvazione del Real Principe, commandò che la sentenza fosse sospesa; onde il povero condannato fu trattenuto ancora in Conforteria sin tanto che qui arrivasse il detto Real Principe”.

A 20 fu esposto al Real Principe il detto caso del Chierico Didino, colla sentenza già pronunziata dal Senato, ma poi prorogata, e nello stesso tempo fu pregato a render giocondo il suo arrivo coll’accordare la grazia della vita al povero condannato, ma egli vedendo essere stato troppo barbaro il fatto non volle acconsentire, onde nel dì 21 doveva essere eseguita la sentenza”.

 Ma repplicatesi nel dì 21 le preghiere, particolarmente di Monsignor Gallarati vescovo di Lodi e della Signora Contessa D. Clelia Borromea, si arrese il Principe ad accordare la grazia della vita, colla pena però di prigionia perpetua; onde doppo di esser stato il povero chierico trattenuto in Conforteria quasi 6 giorni, fu levato dalla medesima, e condannato al perpetuo carcere”.

Sembrava che il Didino fosse destinato a trascorrere il resto della vita nelle regie carceri che si trovavano nel palazzo del capitano di giustizia in Porta Orientale. Oggi l’edificio, che si affaccia su piazza Fontana, è sede della polizia municipale. 

Il destino riservava tuttavia una fine ben diversa all’ex chierico milanese. 

Il 16 marzo 1746 gli austriaci tornarono in possesso del ducato di Milano. Alcuni mesi dopo la sentenza di condanna a morte fu resa esecutiva. Il piccolo gruppo di personalità che avevano chiesto di risparmiare la vita al condannato era pressoché scomparso. La Borromeo, appartenente a quella parte della nobiltà che si era maggiormente compromessa per aver collaborato con il cessato regime spagnolo, dovette fuggire da Milano e stabilirsi nella repubblica di San Marco.  

Nulla più si opponeva all’esecuzione della condanna a morte del Didino. Maria Teresa confermò rigorosamente la sentenza del Senato. Il primo settembre l'ex chierico, dopo essere stato orrendamente torturato come era prassi per i rei di omicidio appartenenti al popolo, fu impiccato sopra un carro posto a pochi metri dal luogo ove era avvenuto il truce omicidio. 

Un gran numero di cittadini aveva assistito all’evento, mosso da un sentimento di palese soddisfazione per l’esecuzione della condanna. Come sembravano lasciar trasparire le annotazioni del Borrani, la sentenza del Senato costituiva, nella percezione popolare, il segno della giustizia divina. Il motto “Senatus iudicat tamquam Deus”, con cui si era soliti definire l’attività del Senato, lungi dall'essere un’astratta formula giuridica, riassumeva assai bene le fede dei milanesi nell’operato della suprema istituzione del ducato.

Lasciamo per l’ultima volta la parola al Borrani:

“A 1 [settembre] fu giustiziato il Cherico Antonio Didino …siccome però le grazie fatte dai Spagnuoli nel tempo dell’occupazione di questo Stato furon dichiarate invalide…così l’eccellentissimo Senato per ordine particolare della Corte di Vienna esaminò di nuovo la causa del detto Didino, e a 30 dello scorso mese decise exequendam esse primam sententiam. Onde fu posto di nuovo in Conforteria, e nel detto giorno 1 fu condotto sovra Carro con 3 colpi di tenaglia allo Stradone della Passione, ed ivi sovra d’una forca più alta della solita fu impiccato”. 

“Il concorso di persone d’ogni condizione, e sesso in quelle contrade, che dalle carceri conducono al detto Stradone fu indicibile, ammirando tutti la Divina Providenza, e le cose dalla medesima disposte per voler punito un sì grave delitto”.

Meno di vent’anni dopo il giovane Pietro Verri, pronunciando un audace discorso dinanzi al sodalizio dell’accademia dei Pugni, avrebbe mosso le prime serrate critiche alla giurisprudenza del Senato: 

Oh gran Senato che non giudica come i Senati, bensì come Dio, Senatus judicat tamquam Deus, cioè tamquam Deus non dando mai ragione delle proprie sentenze; poiché se desse ragione gliene resterebbe tanto meno per lui e non è mai soverchia la ragione in un Tribunale di Giustizia; judicat tamquam Deus ad imitazione dei giudizii di Dio col fuoco, coll’acqua, col duello e coi dadi, quali come c’insegnano le storia chiamavansi pure Judicia Dei”.
[P. Verri, Orazione panegirica sulla Giurisprudenza milanese, 1763]

martedì 10 settembre 2013

Un lupo semina il terrore nella Brianza del primo Settecento

Nel diario dell'abate milanese Diego Antonio Minola, sotto l'anno 1741, si trova una curiosa annotazione relativa a una serie di tragici eventi avvenuti nei dintorni di Milano. 

Un lupo aveva sparso il terrore in comuni quali Vimercate, Cambiago, Carugate, Velate, Oreno. Non si trattava degli assalti contro il bestiame cui andavano soggette le proprietà dei contadini. Si trattava di feroci sbranamenti di cui sembravano esser state vittime in larghissima parte bambini.

Nella narrazione il Minola descriveva il lupo ritraendolo con sembianze quasi demoniache. In effetti, vista la scelta delle vittime, il caso presentava elementi assai inquietanti, che avevano grandemente impressionato la collettività. 

Ma diamo la parola al Minola: 

"Un animale selvatico longo tre braccia milanesi [equivalente a 1.78 metri, NdR] fu veduto nella stagione estiva dell'anno passato a rubbare figliuoli, essendo creduto lupo nostrano,  e nell'autunno si ritirò non si sa dove".

"Questo anno ritornò di nuovo sul principio della estate, e senza toccare né persone, né cani, né altre bestie domestiche faceva strage di carne umana, e particolarmente di fanciulli, contandosi de 80 persona (sic!) sbranate nei territori di Vimercate, Orena (Oreno), Velate, Oldaniga, Cambiago, Carrogate (Carugate)".

"La fiera nell'assalire la gente in campagna compariva con occhi rossi e lingua serpentina con collo armato di setole lunghe più di quelle del cignale (sic!), e tutto il restante del corpo era basso e ruido color castano macchiato di nero con coda pelosa simile al collo e con agilità incredibile, onde ne restava sempreppiu' spaventato tutto il paese, benché armato, finché venne uccisa nel dì 15 luglio 1741 nel bosco di Concorezzo quando aveva afferrata una giovane di 14 anni e la divorava". 

"In tale circostanza fu fatta una stampa incisa dall'incisore Marc'Antonio Dal Re rappresentante al naturale, essendo i piedi avanti muniti di cinque denti (sic!), perciò del genere dei lupi".

Da "Diario di Diego Antonio Minola" in Biblioteca Ambrosiana, G112 Suss. 

Purtroppo non è stata trovata traccia della stampa eseguita da Marc'Antonio Dal Re, il quale - com'e' noto - si guadagnò la fama nella Lombardia settecentesca eseguendo preziose incisioni che ritraevano  scorci di strade e isolati milanesi. Del Dal Re merita infine ricordare la raccolta di incisioni riguardanti le ville imponenti che i patrizi milanesi, seguendo i costumi della società di corte tipica dell'antico regime, si erano costruiti nei loro possessi in campagna.

lunedì 27 maggio 2013

Andreotti, un ritratto con molte ombre e poche luci

La morte di Giulio Andreotti impone alcune riflessioni sul ruolo da lui rivestito nel sistema politico italiano. Ora che se n’è andato nella sorpresa generale – già perché noi tutti eravamo convinti che avesse guadagnato l’immortalità in forza di un patto luciferino – ci sentiamo improvvisamente più leggeri ma al contempo più insicuri, come se avessimo perso con lui, nel bene e nel male, un pezzo di storia, una parte importante del nostro passato, della nostra memoria collettiva. Eppure, a ben vedere, tale sensazione coglie un'esigua minoranza di persone. La maggioranza di quanti sono vissuti negli anni della sua lunga carriera politica crede ancora oggi che sia l'incarnazione del "grande vecchio", il malvagio custode dei misteri più occulti della cosiddetta Prima Repubblica. C'è poi chi non si pronuncia per ragioni anagrafiche. Provate a chiedere ai giovani di oggi cosa pensano di Andreotti. Molti vi rispondono candidamente che non lo conoscono.

Sarebbe tuttavia un grave errore dimenticarsi del politico romano. Cresciuto nella scuderia di Alcide de Gasperi, Andreotti ereditò dell’uomo trentino il senso dello Stato ma apparteneva a una generazione diversa, era fatto di una pasta diversa. Persona assai più di curia che di governo, sembrava affrontare le prove della vita con cinico distacco, foderato di quel compassato realismo che lo ancorava, nello stile di governo, ai più scaltri e navigati segretari di Stato dell'ancien régime. Insomma, quando penso alla sua condotta in politica, ai sette governi da lui presieduti tra gli anni Settanta e i primissimi anni Novanta, mi vengono in mente le sagge, ciniche massime del cardinale Armand-Jean du Plessis du Richelieu o del cardinale Giulio Mazzarino, due uomini che ressero il governo della Francia per buona parte del XVII secolo. Tra gli adagi più diffusi nelle corti europee di fine Seicento ve n'era uno che costituiva quasi una piccola guida pratica per gli uomini di governo

"Non essere facile alle promesse e alle concessioni. Ridi poco. Non prendere decisioni affrettate e non cambiare mai quello che hai deciso. Non fissare le persone, non grattarti il naso e non arricciarlo, non fare l'aria severa, gesticola poco, tieni la testa eretta, parla poco e sentenzioso, cammina a passi misurati, muovi il corpo con dignità". 

Se si toglie il riferimento alla testa eretta, questa massima attribuita al cardinale Mazzarino sembra uscita dalla penna di Andreotti.

Uomo realista, dotato di un eccezionale fiuto politico, di un senso della misura che superava di gran lunga quello dei suoi avversari, Andreotti aveva capito che per governare l’Italia non era sufficiente il rispetto e l'attuazione dei principi costituzionali. Occorreva agire per così dire dietro le quinte, passare attraverso la mediazione continua con i poteri effettivi di cui è intessuto da sempre il complesso ordito della penisola. Seppe mediare tra i partiti reggendo da maestro il gioco parlamentare. Curò i rapporti  con il Vaticano restando rigorosamente entro le rotaie della laicità dello Stato come insegnava la scuola cattolico liberale.

Relativamente ai rapporti con la mafia, la sentenza del Tribunale di Cassazione del 23 dicembre 2004 ha stabilito la sua assoluzione dal reato di associazione mafiosa dal 1982 in poi anche se restano molti dubbi sui suoi rapporti con uomini di Cosa Nostra nel periodo precedente. Il che peraltro non è bastato a provare una sua effettiva collusione con la mafia perché negli anni anteriori al 1980 il reato di associazione a delinquere di stampo mafioso non esisteva nel codice penale: per quegli anni Andreotti ha avuto la prescrizione per il reato di associazione a delinquere semplice. Insomma, questa parte della sua vita è ancora avvolta nell'ombra.
 
Nel sistema di governo parlamentare Andreotti fu uno dei maggiori interpreti di quella politica della mediazione, della ricerca del juste milieu nella formazione dei governi di larghe intese per il bene del Paese che fu probabilmente uno dei pochi lasciti preziosi della Prima Repubblica; uno stile di governo che oggi Napolitano ha fatto bene a recuperare e ad incoraggiare - sia pure tra mille difficoltà - in seguito al pieno fallimento del bipolarismo nei vent’anni seguiti alla discesa in campo di Berlusconi.

Come avviene per tutti i grandi capi di governo, chi voglia abbozzare un ritratto del politico romano non può che ricorrere alla tecnica del chiaro scuro. E' facile ricordare le molte ombre, più difficile scorgere le qualità che pure vi furono in quest'uomo mite, che curava i rapporti con gli elettori agendo con zelo, dedizione e impegno.

Tra le sue qualità non si può negare il senso dello Stato che ebbe fin dall’inizio della sua carriera politica. Un senso dello Stato che, nei momenti più difficili della democrazia italiana, lo pose dinanzi a scelte dolorose. Quando fu rapito Aldo Moro, Andreotti era presidente del consiglio in un governo monocolore appoggiato dalla Democrazia Cristiana e dal Partito comunista. Assieme ad Ugo la Malfa e ad Enrico Berlinguer, non esitò a guidare il fronte della fermezza contro ogni ipotesi di compromesso con i terroristi. Andreotti avvertì addirittura i suoi familiari e gli amici più cari che se la disgrazia di cui fu vittima Moro fosse capitata a lui o a qualsiasi altro politico, il dovere del governo era di non indietreggiare di un millimetro dalla linea della fermezza. Lo Stato non poteva scendere a patti con le Brigate Rosse, con chi aveva assassinato i suoi uomini più fedeli: magistrati e poliziotti. Se questo fosse avvenuto, le Brigate Rosse avrebbero raggiunto il loro scopo: mostrare che lo Stato era debole, incapace di assicurare ai cittadini le sue funzioni fondamentali: la pace sociale e il rispetto del diritto. Se il governo fosse sceso a compromessi con i terroristi, sarebbe stato evidente che il diritto dello Stato poteva essere combattuto, piegato dalle logiche della forza organizzata. Sarebbe scoppiata in altri termini una guerra civile. In un'intervista rilasciata a Radio 24 in cui ricordava a distanza di anni quei drammatici eventi, Andreotti disse:

"Durante il rapimento di Aldo Moro, la linea della fermezza era l'unica via possibile. Se noi avessimo ceduto, ci sarebbe stato uno sciopero bianco di tutte quelle categorie che erano state colpite dai brigatisti perché tra morti e feriti un pezzo dell'Italia aveva pagato un contributo pesantissimo. Se noi avessimo trattato ci sarebbe stata la ribellione delle vittime del terrorismo. La linea della trattativa non avrebbe risolto il problema. Resto rammaricato per non essere riuscito a salvare Moro. Sicuramente c'è stata una correlazione tra l'insediamento del mio Governo e il rapimento Moro".

La seconda qualità di Andreotti risiedeva nell'atteggiamento prudente, in quell'attenta comprensione dei fenomeni storico-sociali che egli si era formato probabilmente negli anni verdi della sua vita, nel periodo trascorso alla Biblioteca Vaticana quando attendeva ai suoi studi sulla marina pontificia. Il politico romano nutriva una grande passione per la storia. Occorre ricordare a tal proposito, tra i contributi da lui resi in questo campo, un interessante libro su Pio IX (G. Andreotti, La fuga di Pio IX e l'ospitalità dei Borbone, Roma, Benincasa 2003) in cui mostrava come papa Mastai Ferretti, negli anni tormentati del 1848-49, non fosse pregiudizialmente contrario alla concessione di una Carta costituzionale per gli Stati pontifici informata, sia pure in parte, ai principi del costituzionalismo moderno. In appendice al volume era allegato il documento della bozza elaborata dai giuristi del Papa.

Insomma, è difficile stilare un bilancio sull'operato di Andreotti in politica. La sua figura non cessa dividere l'opinione pubblica. I giudizi di natura politica, divisi come sono tra quelli che lo accusano e quelli che lo assolvono, rendono assai difficile comprendere con distacco il suo ruolo all'interno delle istituzioni in politica interna. Anche in politica internazionale la sua azione diplomatica filopalestinese e filoaraba tra gli anni Settanta e Ottanta, non è stata ancora studiata come meriterebbe.

Attendiamo dagli storici dell'età contemporenea uno studio che, muovendo dall'analisi rigorosa delle fonti documentarie e degli atti processuali, possa prendere in esame con metodo avalutativo la sua azione in politica interna e ancor più nelle complesse dinamiche della politica internazionale nell'età della guerra fredda.

lunedì 13 maggio 2013

Belle milanesi e truci impiccagioni nel diario di un celebre turista tedesco

Johann Kaspar Goethe (1710-1782), giurista, uomo di lettere, appassionato bibliofilo e collezionista di opere d’arte, è ricordato per essere il padre del famoso poeta Johann Wolfgang. Anticipando il figlio di quarant’anni, anche Johann Kaspar visitò l’Italia. Fece un breve soggiorno a Milano ai primi di agosto del 1740. Gli appunti riguardanti i suoi viaggi vennero pubblicati in Italia con il titolo Viaggio in Italia nel 1932. Si tratta di un’opera pressoché introvabile nelle librerie. Andrebbe ristampata, non foss’altro che per le preziose riflessioni sui costumi e sugli stili di vita delle popolazioni negli Stati italiani preunitari.

Lo scrittore tedesco forniva un ritratto significativo su Milano. Nelle pagine dedicate alla città del Duomo, in un italiano un po’ rude come poteva essere quello appreso da un tedesco dei primi decenni del Settecento, Johann Kaspar descriveva le principali chiese cittadine quali Sant’Ambrogio, Sant’Eustorgio, San Lorenzo. Del Duomo riconosceva la mole grandiosa anche se a quel tempo la facciata era incompiuta. In realtà, le sue riflessioni meritano di essere commentate e riportate per almeno due ragioni. Anzitutto perché forniva alcune interessanti descrizioni sullo stato della città. Ad esempio rilevava stupito come nei palazzi ci fossero “finestre di carta” mettendo in evidenza come tale realtà fosse del tutto inadeguata per una città importante come Milano, che era a quei tempi – non va dimenticato – capitale di uno Stato nel Nord Italia particolarmente importante sia da un punto di vista economico che geopolitico. Varrà la pena ricordare che l’uso dei vetri nelle abitazioni domestiche si imporrà molto lentamente in età moderna, affermandosi su scala generale solo nel corso del XIX secolo. Johann Kaspar ricordava inoltre come fosse diffusa la convinzione che le donne milanesi fossero particolarmente belle. A suo giudizio il grado di libertà di cui disponeva il gentil sesso sotto la Madonnina era assai maggiore rispetto a quanto avveniva in altri Stati italiani come il Regno di Napoli o la Repubblica di Venezia. Unico difetto delle milanesi risiedeva nella parlata: la pronuncia, l’inflessione della lingua meneghina “è peccato che non sia uguale allo spirito di cui sono dotate”.

Scriveva il padre di Goethe nei suoi appunti di viaggio:

 “E’ vero che le sue strade [di Milano, Ndr] sono storte e strette e le case, come anche i palazzi provveduti di finestre di carta, il che fa un cattivo aspetto in una gran città, la cui grandezza va fino a dieci miglia italiane di circuito; oltre che è popolatissima, contenendo più di 30.000 anime (in realtà la popolazione doveva attestarsi in quegli anni sulle 80-100.000 persone), tra le quali il sesso donnesco circa l’esteriore vien stimato il più bello di tutte le altre, poiché, giusta il calcolo d’uno molto intendente in questa materia e buon aritmetico, vi debbono essere cinque belle contro una brutta, calcolo ch’io né voglio né posso sottoscrivere. Gli abitanti in genere, per le differenti viste degli Spagnoli, Francesi e Tedeschi, hanno acquistato differenti maniere di vivere. Non v’è in uso quella soggezione delle donne, e non sono così rigorosamente osservate ed accompagnate dai cicisbei, e le ragazze restano nelle case paterne, sinché siano maritate, senza rinchiuderle tra le mura d’un oscuro chiostro, come fanno principalmente i gelosi Veneziani o Napoletani. Insomma, donne e zitelle godono gran libertà, ed è peccato che la loro pronunzia non sia uguale allo spirito con cui sono dotate”.

 La seconda ragione per la quale gli appunti di Johann Kaspar meritano di essere ricordati verte a mio parere su alcune descrizioni di vita quotidiana milanese che oggi stenteremmo a credere proprie di questa terra. A cogliere l’attenzione del nostro visitatore erano le truci esecuzioni capitali. Comminate dai tribunali dello Stato potevano essere confermate in ultima istanza dal Senato, la suprema istituzione giuridico amministrativa del ducato composta, come ricordava Johann Kaspar: “di un presidente e venti dottori nobili, tutti indipendenti dal governo generale”.

Tali sentenze, decise dai giudici d’ancien régime, da un lato si uniformavano alla comunis opinio, dall'altro potevano dipendere dal potere equitativo del giudice. Esse si informavano in particolar modo alle consuetudini secolari vigenti nello Stato, consuetudini che affondavano le loro radici nelle antiche normative locali: le Novae Constitutiones del 1541, gli Statuti del Comune, il diritto romano. L’impiccagione di due delinquenti viene descritta all’interno di una lugubre cerimonia i cui effetti teatrali dovevano colpire nel profondo la folla. Lo scrittore tedesco ricordava la confraternita della carità in San Giovanni alle Case Rotte (la chiesa si trovava nella via omonima, a pochi metri di distanza da palazzo Marino), una corporazione composta in larga parte di nobili la cui funzione consisteva nell’accompagnare i condannati sul patibolo fornendo un supporto religioso e provvedendo, al termine dell’esecuzione, alla loro sepoltura nel cimitero della chiesa.

Scriveva Johann Kaspar:

“Vidi ieri impiccare due birbi. Vi furono osservate tante solennità e circostanze che altrove non si usano. La confraternita della carità, che consiste di nobili ed altri cittadini, si radunava innanzi la prigione coll’abito del loro ordine che copre tutto il corpo, eccetto gli occhi, avendo in una mano una candela accesa, nell’altra una corona di stupenda grandezza. Messi in ordine, camminano a paio a paio, col crocifisso nel fronte, ed i loro servitori a canto [sic!], poi segue il delinquente, condotto tra un padre francescano ed uno della confraternita, che porge la mano al condannato vacillante, per pura carità; dietro di questo viene il boia”. “In tal guisa, con urli, canzoni e preghiere s’avvicinano verso la forca, per questa volta dirizzata in piazza del Duomo [normalmente le impiccaggioni avvenivano in piazza Vetra, NdR]. Quando i malefici furono giunti, si confessarono, e poi in su la scala tirati; dall’altra parte ascende uno de’ confrati [confratelli], a cui tocca, mostrando a quell’infelice il crocifisso, sino che il boia lo getta abbasso, tenendo due corde lunghe; l’una lo soffoca l’altra [sarebbe usata] se quella si rompesse; sospeso così in aria, il boia gli salta sul collo in cui resta, ballando sinché quell’infelice è morto, poi l’abbandona. Indi uno della confraternita monta in su battendo [tagliando] le corde, intanto che gli altri in terra l’aiutano, i quali insieme mettono il corpo levato dalla forca in una cassa, portandolo al cimitero della chiesa di San Giovanni delle Case Rotte; ed ivi vien seppellito. In quanto alle corde, servite a questo uso, vengono abbruciate, per non essere impiegate a qualche stragaria [sic!]. Non ho lasciato in questa relazione pur la minima circostanza, per essere molto differente dal nostro paese”. Evidentemente le esecuzioni a Francoforte avevano una dinamica assai più semplice e spedita.

Il turista tedesco concludeva le sue notazioni con un curioso appunto sulle persone che frequentavano piazza del Duomo. Qui si soffermava sui cicisbei – gentiluomini addetti all’accompagnamento delle dame – nonché  sulla moda curiosa dei preti e dei padri di famiglia. A tal proposito, annotava stupito come fossero soliti portare in pubblico gli occhiali sul naso, usanza che in Germania era inconcepibile. A Milano invece questi uomini potevano farlo perché: “la moda li libera dalle risa”. Varrà la pena ricordare che la piazza del Duomo, nella Milano del Settecento, aveva un’estensione assai più ristretta dell’attuale. Ma diamo la parola, per l’ultima volta, al nostro turista:

“Detta piazza del Duomo serve regolarmente per passeggio in carrozza ed a piedi, ove vidi i cicisbei ed altri di questa razza far il loro mestiere. Ma più mi meravigliai quando vidi gli abati e padri coll’occhiale sul naso. Si figuri un nostro Pantalone passeggiar per le strade in tal guisa armato, cosa direbbero i nostri cittadini. E poi qui la moda li libera dalle risa!”.

sabato 4 maggio 2013

L'idea (ottima) della Convenzione rivela gli irriducibili oppositori alle riforme

L'opposizione di Stefano Rodotà alla Convenzione per le riforme costituzionali, resa pubblica in un'intervista al Fatto quotidiano , è stata preceduta dalla presa di posizione dei Comitati Dossetti per la Costituzione  i quali, in un appello rivolto al governo, hanno invitato il presidente del consiglio Letta - e implicitamente la maggioranza Pd-Pdl-Scelta civica che sostiene il governo - ad affossare qualsiasi progetto di riforma complessiva dell'ordinamento. Questi giuristi, concordi con il professor Onida, ritengono che l'unica via di riforma delle istituzioni debba passare attraverso la procedura indicata dall'articolo 138  "senza l'osservanza del quale l'intera Costituzione sarebbe delegittimata".

Tali posizioni mostrano quanto sia ancora forte in questo Paese il fronte di chi considera la Carta del '48 un feticcio da venerare quasi fosse una Bibbia civile, un testo intoccabile. Rodotà, al quale era stato proposto di presiedere la Convenzione, ha rigettato tale invito mostrandosi recisamente contrario a qualsiasi ipotesi di riforma. Non capisco come i grillini abbiano potuto avanzare la candidatura di Rodotà al Quirinale presentandola come un cambiamento per l'Italia. Si sa d'altra parte che le vere dinamiche che sottostanno alla politica si fondano in larga parte su atteggiamenti e decisioni che hanno ben poco di razionale.

L'elezione popolare di una Convenzione per la riforma della Costituzione costituisce una delle soluzioni più coerenti con il principio della sovranità popolare perché il popolo, quando la Convenzione avrà terminato la redazione della nuova Costituzione, sarà chiamato ad approvare con plebiscito la nuova Carta fondamentale. Questa è la procedura che si è sempre seguita in passato nei processi di revisione costituzionale mediante Convenzione.

Nel nostro ordinamento democratico l'elezione popolare di una Convenzione è possibile mediante una legge di riforma costituzionale che, approvata dai due rami del parlamento in forza dell'articolo 138, introduca nella Carta tale procedura. Una soluzione, quella della Convenzione, in fondo assai più democratica e liberale rispetto al vigente articolo 138, il quale autorizza una maggioranza dei due terzi della classe politica in Parlamento a riformare integralmente la Costituzione senza passare per il referendum popolare.

Ovviamente ci sono altre vie per modificare una costituzione e fondare una nuova repubblica. Ad esempio l'Assemblea costituente, la quale - come fecero i nostri 'padri' nel 1946-47 - sarebbe chiamata a riformare l'ordinamento costituzionale esercitando al contempo la funzione legislativa ordinaria.

Credo però che la Convenzione sia la via maestra per gestire il cambiamento salvaguardando non solo la legalità ma ancor più la piena legittimazione democratica delle riforme costituzionali.

Io non so richiamare a tal proposito esempio più prezioso dell'articolo 33 del progetto di costituzione girondino del 15-16 febbraio 1793. Redatto da Condorcet che lo presentò alla convenzione francese, esso recitava:

"Un popolo ha sempre il diritto di rivedere, di riformare e di cambiare la sua costituzione. Una generazione non ha il diritto di assoggettare le generazioni future alle sue leggi e ogni eredità nelle funzioni è assurda e tirannica".

Tale articolo, che introduceva anche il principio del continuo ricambio della classe politica, dovrebbe costituire uno punto basilare di ogni ordinamento costituzionale poggiante su basi liberali e democratiche.

Non resta che augurarci che i politici seguano tale esempio. In caso contrario, se hanno intenzione di formare una commissione parlamentare aperta ai tecnici come sembrerebbe in base a recenti dichiarazioni rilasciate da politici di area Pdl, evitino di mascherare tale soluzione definendola subdolamente con il termine "convenzione". Una commissione parlamentare per le riforme costituzionali sarebbe una moderna riedizione della bicamerali di infausta memoria. Infausta perché sappiamo il risultato fallimentare che hanno prodotto.


sabato 20 aprile 2013

Le sinistre incognite nel futuro di un Napolitano bis


Se dovesse concretizzarsi la rielezione di Napolitano, saremmo in una situazione terribilmente simile a quella in cui si trovò la Germania nella prima metà degli anni Trenta del secolo scorso. 

Nel 1932 il presidente uscente, l'anziano Paul Ludwig von Hindenburg, fu costretto a ricandidarsi dai partiti  democratici nonostante fosse soggetto a crisi di senilità che gli impedivano da tempo di condurre efficacemente le sue funzioni. Con la rielezione di Hindenburg si evitò il successo di Hitler ma, com'è noto, fu un rimedio di breve durata.

Sappiamo come andò a finire. Il 30 gennaio 1933 Hindenburg, influenzato e incapace di resistere alle pressioni degli ambienti militari e conservatori tedeschi, nominò il capo del partito nazista alla cancelleria del Reich. Il giorno prima della morte, avvenuta il 2 agosto 1934, l'anziano presidente ricevette Hitler nella sua casa nella Prussia orientale: Hindenburg, ormai agonizzante, pensando di trovarsi di fronte all'imperatore, lo chiamò "Sua Maestà". 

Il nostro Capo dello Stato non si trova fortunatamente nelle condizioni di Hindenburg. Chiediamoci tuttavia se il presidente Napolitano (classe 1925), qualora fosse rieletto - come sembra ormai probabile - sarebbe in grado di esercitare le sue funzioni nei prossimi sette anni con la necessaria forza e lucidità. Le difficili condizioni in cui si trova l'Italia richiedono una guida forte e autorevole che sia in grado di svolgere il mandato presidenziale per l'intero arco del settennato. 

Se la maggioranza del collegio parlamentare (accresciuto dai delegati delle Regioni) non riuscirà a pervenire a una  d e c i s i o n e  politica sull'elezione al Quirinale, ci troveremmo di fronte a una grave crisi istituzionale. A quel punto, non ci troveremmo di fronte all'ascesa di un nuovo Hitler (almeno per ora), ma saremmo invischiati in un tunnel la cui uscita rischierà di essere traumatica nella grave crisi economica in cui si trova il Paese.

Non si riconferma un anziano Presidente, anche se ha reso un ottimo servizio al Paese nel suo settennato. Se ciò avvenisse, avremmo risolto solo per breve tempo una crisi politica senza precedenti. 

lunedì 25 febbraio 2013

Rebus Elezioni 2013

La bomba di Grillo fa strage a sinistra, Berlusconi resuscita grazie all'autogol di Giannino e al frigidaire di Monti. Senato a destra, Camera a sinistra e Grillo nel mezzo...

martedì 5 febbraio 2013

Credo x Tassassini

'Nel 1992 fu ISI, imposta straordinaria sugli immobili, imposta onnipotente che colpi' anche la prima casa. Divenne ordinaria e fu Ici. Il suo gettito fu destinato ai Comuni. Abolita da B. nel 2008, rinacque il terzo anno con Monti...'

Eh no cari Tassassini...su questo sentiero non vi posso seguire. Il Credo si dice solo in Chiesa.